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Silvia e Giuditta Di Veroli

Giuditta e Silvia Di Veroli, rispettivamente madre e zia di Carla Sciunnach, e zie di Grazia Di Veroli, furono deportate entrambe ad Auschwitz e ritornate a pochi giorni di distanza l’una dall’altra.
Figlie di Giacomo Di Veroli e Angela Funaro nacquero a Roma, Giuditta il 3 gennaio 1918,
e il 28 agosto 1914 Silvia (nella foto a destra Giuditta, nella foto a sinistra Silvia); avevano anche un fratello, Michele.

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Conducevano una vita tranquilla, Giuditta lavorava come commessa in via Appia, gestiva un negozio di tessuti.

Il giorno che sono state arrestate, 24 dicembre 1943, per mano di un collega del padre che aveva fatto la denuncia alle autorità, Giuditta era a lavoro ma stava male, e la portiera del negozio accanto voleva che rimanesse da lei, invece tornò a casa e trovò i tedeschi che erano venuti a prenderli.

Tutta la famiglia venne arrestata e portata al carcere di Regina Coeli per poi essere trasferita al campo di smistamento di Fossoli. Da qui partì il convoglio numero nove del 5 aprile 1944 destinato ad Auschwitz.

Silvia venne immatricolata con il numero 76788, mentre di Giuditta non si conosce l’immatricolazione (nota).
Quando liberarono i campi Silvia si trovava a Theresienstadt (liberata il 9 maggio 1945) e Giuditta a Kaunitz (liberata il primo aprile 1945). Rientrarono entrambe a Roma nell’agosto dello stesso anno. Le sorelle tornarono a distanza di un giorno l’una dall’altra, i genitori morirono all’interno del campo di sterminio, mentre il fratello, Michele, risulta liberato ma disperso. Un giorno, durante la festività di Pesach, la Pasqua Ebraica, sentirono il fischio tipico che faceva il fratello quando rientrava in casa, uscirono subito tutti e si precipitarono per le strade ma non c’era nessuno.

Al rientro a Roma Silvia e Giuditta trovarono la casa occupata da alcuni parenti lontani, che si erano impossessati di tutti i beni, dopo vari litigi, questi restituirono tutto alle sorelle. Silvia poi fortunatamente ebbe il lavoro del padre, e riuscì superare il dolore del campo.

Giuditta aveva un carattere un po’ più ostile, raccontava ma molto meno della sorella; d’estate portava la maglia a maniche lunghe per nascondere il numero, Silvia invece parlava della deportazione più volentieri, leggeva i libri, guardava film sulla Shoah e tornava ad Auschwitz (portandosi però i fiori da Roma), Giuditta non è mai voluta tornare. Nonostante gli orrori vissuti le sorelle si sono ricreate una famiglia, abitando insieme; Giuditta in seguito si sposò ed ebbe due figlie, Silvia invece prese a cuore una bambina figlia di parenti morti nei campi di concentramento che adottò come se fosse sua. Entrambe non hanno mai fatto trasparire l’orrore del campo di sterminio ai propri familiari, cercando sempre di vivere serenamente guardando avanti nonostante gli spettri del passato.

NOTE:

  • Picciotto, L. 1991. Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943- 1945). Milano, Mursia Editore. pag. 260 – Silvia DI Veroli; pag. 257 – Giuditta Di Veroli

Settimia Spizzichino

La vita di Settimia Spizzichino viene raccontata dalla nipote, Carla Di Veroli e ripercorsa grazia a un film Nata due volte. Settimia nacque a Roma il 15 aprile 1921. Viveva in via della Reginella 2, in pieno quartiere ebraico insieme alla sua famiglia, una famiglia molto protettiva, con i vecchi valori di una volta. Il padre era commerciante di libri e la madre maestra alla scuola ebraica. Il fratello, Pacifico, si accertava che le sue sorelle si comportassero in modo adeguato ed educato.settimia spizzichino

Settimia, a differenza delle sorelle, è stata sempre una ragazza ribelle, racconta di aver fatto tante cose che i genitori e il fratello non le avrebbero permesso e ha continuato a farlo anche dopo le leggi razziali del 1938. Amava passeggiare e andare a prendere il caffè in Via Veneto, quindi fuori a quello che era il perimetro dell’ex ghetto di Roma. Amava andare al cinema e prendersi cura di sé. Racconta nel film di quando ad Auschwitz venne tosata e di questa ciocca di capelli che le cadde sulla schiena, la sensazione di quel brivido che sentì mentre i capelli le scivolavano addosso, è stata sempre presente dentro di lei anche a distanza di anni. Racconta di questa tinta per capelli fatta “per fanaticheria” cioè proprio per il piacere di preoccuparsi della propria estetica con un certo compiacimento. Settimia amava molto vestire bene, lo ha fatto prima del campo e ha continuato a farlo anche dopo, ma ha sempre rifiutato di indossare il colore giallo (nota)… Facile immaginare il perché.

La mattina del 16 ottobre 1943 verso le sei si cominciarono a sentire i rumori pesanti e voci che gridavano in tedesco di uscire di casa. Settimia scese di casa con i fucili puntati addosso in fila indiana insieme alla famiglia, con i tedeschi che urlavano “è per il vostro bene!”. Usciti dal ghetto li fecero salire sui camion diretti alla stazione dove ad aspettarli trovarono i treni diretti ad Auschwitz (nota). Il viaggio durò circa tre giorni in un vagone dove non c’era neanche l’aria per respirare. Le persone erano costrette a urinare e defecare nel posto in cui si trovavano; quando il treno si fermò molti erano già morti per assideramento.

Sulla banchina divisero gli uomini dalle donne e Mengele (nota) si occupò di effettuare la selezione: Settimia, la sorella più giovane e altre ragazze del ghetto furono portate al campo di lavoro, la madre e la sorella più grande andarono subito alle camere a gas. Nessuno sapeva quello che stava accadendo, tutti pensavano che si sarebbero rivisti la sera. Dopo la tosatura, il numero (66210), la doccia, il vestiario malmesso e sporco e tanta fame, a notte fonda Settimia fu portata in grandi baracche piene di altre persone. Qualche giorno dopo venne internata nel blocco degli esperimenti, il famigerato blocco 10. Le vennero somministrati il tifo e la scabbia. “La scabbia – dice nel film – è stato l’esperimento più atroce, perché mi si erano formate le piaghe da tutte le parti, perfino dentro le orecchie… E io urlavo, urlavo tanto, perché davanti allo specchio non mi riconoscevo”. Nel blocco degli esperimenti Settimia vide passare spesso coppie di gemelli ricordandosi in modo particolare di due gemelle bellissime con gli occhi scuri e i capelli biondi, dopo circa una settimana le vide trasformate: avevano gli occhi azzurri e la pelle molto gonfia (nota).

Durante tutto il periodo di prigionia Settimia aveva un unico obiettivo: tornare per raccontare, ed è questo che le dava la forza di affrontare ogni giorno.

Il 17 gennaio 1945 iniziò l’evacuazione da Auschwitz di 67.000 reclusi, compresa Settimia, che fu costretta a fare la marcia della morte sotto la neve, dopo qualche giorno arrivò a Bergen-Belsen.

Il campo di Bergen-Belsen è stato liberato dagli alleati il 15 aprile 1945, Settimia venne liberata il giorno del suo compleanno, e questo rappresentò per lei una rinascita, come se fosse nata due volte. Il rientro a casa fu molto difficile; riuscì ad arrivare a Roma solamente nel settembre del 1945, un viaggio durato mesi fatto di mezzi di fortuna ma caratterizzato anche da episodi di solidarietà da parte dei soldati alleati e dalle persone incontrate; a Bologna il treno si fermò e un signore offrì a lei e alle sue amiche un gelato (per l’epoca molto costoso).

Al ritorno trovò il padre e due sorelle, e riprese la vita di tutti i giorni andando a fare la commessa in un negozio. Voleva tenere occupate le giornate proprio per non pensare ai fantasmi del passato recente. La vita di una donna al rientro non era facile tant’è che un giorno, ricorda Settimia, “fui fermata in modo brusco da un uomo che mi disse ‘Tu perché ti sei salvata? Ti sei venduta?’”, raccontava sempre questo episodio con tanto dolore, a ulteriore dimostrazione che nell’immediato dopo guerra nessuno poteva capire.

Con i suoi gesti e con i suoi sguardi, Settimia raccontava, anche se non in maniera dettagliata, l’orrore che i suoi occhi avevano visto. Per non turbare l’equilibrio familiare, preferì non raccontare direttamente la sua esperienza. Alle loro richieste rispondeva “è uscito un libro dove c’è una mia intervista, vattelo a leggere”.

Al suo ritorno, Settimia si impegnò nel sindacato per la tutela dei diritti dei lavoratori, scendendo in piazza durante le manifestazioni e rifiutando le candidature alla Camera e al Senato; un rifiuto motivato dal fatto che lei doveva e voleva stare in mezzo alle persone. Si attivò nel testimoniare l’olocausto agli studenti e nei viaggi ad Auschwitz. Le ultime interviste furono rilasciate poche settimane prima della sua scomparsa, avvenuta il 3 luglio del 2000.

Dal libro Gli anni rubati di Settimia Spizzichino:
Ci sono cose che tutti vogliono dimenticare. Ma io no. Io della mia vita voglio ricordare tutto, anche quella terribile esperienza che si chiama Auschwitz: due anni in Polonia (e in Germania), due inverni, e in Polonia l’inverno è inverno sul serio, è un assassino.., anche se non è stato il freddo la cosa peggiore. Tutto questo è parte della mia vita e soprattutto è parte della vita di tanti altri che dai Lager non sono usciti. E a queste persone io devo il ricordo: devo ricordare per raccontare anche la loro storia. L’ho giurato quando sono tornata a casa; e questo mio proposito si è rafforzato in tutti questi anni, specialmente ogni volta che qualcuno osa dire che tutto ciò non è mai accaduto, che non è vero. Ho una buona memoria. E poi quei due anni li ho raccontati tante volte: ai giornalisti, alla televisione, ai politici, ai ragazzi delle scuole durante i molti viaggi che ho fatto per accompagnarli ad Auschwitz… anche se non sempre sono entrata nei particolari. Ad Auschwitz si desidera tornare – anche molti di quei ragazzi lo desiderano – e a qualcuno sembra strano. Ma perché? È come andare al cimitero a portare un fiore e una preghiera. – Raccontavo sul pullman che ci portava in Polonia. È sul pullman che si parla, quando si arriva ad Auschwitz parla la guida e parlano le cose. Le poche che sono rimaste. C’è un museo, ma i forni crematori, le camere a gas, le costruzioni in muratura sono state distrutte. La prima volta che ci sono tornata ho provato più delusione che emozione, non riconoscevo il posto. In questi cinquant’anni trascorsi da allora sono stata spesso sollecitata a scrivere questo libro. E io lo volevo fare; ma c’erano ancora i parenti di quelle che sono rimaste là, i genitori, i fratelli, i mariti, i figli delle mie compagne del gruppo di lavoro. Quarantotto eravamo, e sono uscita viva soltanto io. Molte di loro le ho viste morire, di altre so che fine hanno fatto. Come raccontare a una madre, a un padre, che la loro figlia di vent’anni è morta di cancrena per le botte ricevute da una Kapò? Come descrivere la pazzia di alcune di quelle ragazze a coloro che le amavano? Adesso molti dei genitori, dei fratelli, dei mariti, non ci sono più; le ferite non sono più così fresche. A quelli che restano spero di non fare troppo male. Ma adesso devo mantenere la promessa che ho fatto a quarantasette ragazze che sono morte ad Auschwitz, le mie compagne di lavoro. E a tutti gli altri milioni di morti dei Lager nazisti. Di quel gruppo faceva parte anche mia sorella Giuditta. Giuditta, così bella, così fragile, deportata assieme a me il 16 ottobre 1943. Giuditta, causa involontaria della cattura mia e della mia famiglia“. (Spizzichino S., Di Nepi Olper I., Gli anni rubati: le memorie di Settimia Spizzichino, reduce dai lager di Auschwitz e Bergen-Belsen, Comune di Cava De’ Tirreni, 1996).

All’alba del 16 ottobre 1943, le S.S. naziste rastrellarono e deportarono 1024 ebrei (tra cui oltre 200 bambini). Tornarono solo quindici uomini e una donna: Settimia Spizzichino.

NOTE:

  • Nata due Volte un film realizzato da un progetto dell’A.N.E.D. Sez. Roma e della Fondazione Memoria della Deportazione.
    Produttori:Provincia di Roma – Ass.to alle Politiche della ScuolaProvincia di Salerno – Vice Presidenza Giunta Comune di Roma – Ass.to alla Politiche Educative e Scolastiche Istituto Luce S.p.A. U.C.E.I. Fondo 249/2000 Unversità Roma Tre – Dip.to Comunicazione Letteraria e Spettacolo
  • La Stella di David, la stella a sei punte che rappresenta la civiltà e la religiosità ebraica, venne utilizzata dai nazisti durante la Shoah come metodo di identificazione degli ebrei, di colore giallo, e chiamata Stella Ebrea. L’obbligo di portare la Stella di David con la parola jude (giudeo in tedesco) scritta sopra, venne esteso a tutti gli ebrei al di sopra dei sei anni nelle zone occupate dalla Germania dal 1941. Gli ebrei internati nei campi di concentramento vennero in seguito costretti a portare simili distintivi. I nazionalsocialisti obbligavano gli ebrei a indossare vestiti con cucita la stella di David per farsi riconoscere. (Wikipedia, voce Stella di David)
  • Picciotto, L. 1991. Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943- 1945). Milano, Mursia Editore. pag. 605 – Settimia Spizzichino
  • Josef Mengele è stato un medico e militare tedesco. Laureato in antropologia all’Università di Ludwig Miximilian di Monaco di Baviera e in medicina alla Johann Wolfgang Goethe-Universitat di Francoforte, è noto per i crudeli esperimenti medici che svolse nel campo di concentramento di Auschwitz, usando i deportati, compresi i bambini, come cavie umane. Per la sua attività svolta nel campo di concentramento era stato nominato angelo della morte. […] Sopravvisse alla caduta del regime nazista e, sfuggito al processo di Norimberga, dopo un periodo di vita in incognito in Germania, si rifugiò in Sud America, spostandosi in diversi paesi. Nonostante fosse ricercato come criminale di guerra nazista, sfuggì alla cattura per il resto della sua vita. Morto per cause naturali. (Wikipedia, voce Josef Mengele)
  • Gli esperimenti su gemelli monozigoti erano condotti da Mengele ad Auschwitz e Birkenau. Le ricerche partivano da misurazioni meticolose e assolutamente precise di comparazione fra gemelli. I soggetti venivano addormentati e poi uccisi, i corpi sezionati e studiati dall’interno. (Wikipedia, voce Esperimenti nazisti su esseri umani)

Frida Misul

Frida nacque a Livorno il 3 novembre 1919 da Gino Misul e Zaira Samaia.

A raccontare la sua storia sono i libri che ha lasciato come memoria indelebile quali Il diario di Frida Misul e Fra gli artigli del mostro nazista, in collaborazione con l’Associazione Nazionale ex- internati, Sez. Livorno, il figlio Roberto Rugiadi e la nipote Sarah Rugiadi

Frida Misul

Frida amava cantare, stava diventando una cantante soprano presso una professoressa di musica, Elena Mancini (la persona che poi ha contribuito a farla arrestare), faceva spesso concerti nella sua città natale e lavorava nella friggitoria di famiglia. Frida era una ragazza normalissima, con una famiglia modesta, osservante, felice, unita. Appena arrivarono voci sul fatto che i tedeschi stavano creando limitazioni agli ebrei, Frida cambiò il cognome in Masoni per continuare a esibirsi nei teatri.

Dopo il 1943 Livorno subì dei grossi bombardamenti, e la famiglia Misul fu costretta a chiudere il negozio e sfollare ad Antignano, una piccola frazione fuori dalla città di Livorno, in quanto la madre, di salute cagionevole, non poteva resistere e affrontare i continui raid aerei. Il 12 settembre ci fu un bombardamento navale e, per lo spavento, la madre di Frida ebbe un colpo al cuore (probabilmente un infarto), il giorno dopo morì.

Oltre al dolore per la scomparsa della figura materna, si manifestò il problema dell’organizzazione del funerale. Con il fatto che la morte era avvenuta in casa, occorreva un permesso dalla Questura per avere un’automobile e un po’ di benzina. Permessi che Frida andò a richiedere, recandosi dapprima dai tedeschi per la benzina (che stranamente le fu concessa senza chiederle le generalità), e in un secondo momento in Questura. Nel frattempo, però, la sua insegnante di musica l’aveva già segnalata come ebrea; appena arrivò in Questura, accompagnata dal cugino Alberto Samaia, il maresciallo Altieri della polizia italiana la vide e la dichiarò in arresto. Sentite quelle parole il cugino riuscì a scappare e avvisò la famiglia di nascondersi, poiché erano stati scoperti. Frida fu arrestata il primo aprile 1944 presso la Questura di Ardenza (LI) per mano di italiani.

Da Livorno fu condotta a Fossoli, presso il campo di smistamento, dove conobbe Errina Fornaro Di Veroli (compagna di prigionia e amica, sorella, dopo il campo di concentramento). Da Fossoli partì con il convoglio del 16 maggio 1944, diretta ad Auschwitz. All’arrivo ci fu subito la selezione e Frida venne immatricolata con il numero AX5383 (nota). Da quel momento anche per lei iniziò l’incubo del campo costretta ai lavori forzati. Dopo mesi di freddo, ore e ore a lavorare con il piccone e mangiando quel poco cibo a disposizione (se cibo si poteva chiamare), Frida si ammalò, ed espresse alla Kapò la volontà di essere visitata da un medico. Le altre compagne cercarono di deviarla da questa scelta che avrebbe sicuramente certificato la sua morte, ma ella tenace volle insistere poiché se fosse sopraggiunta la morte avrebbe rappresentato in quel momento la più alta forma di libertà. Così fu visitata da un medico che diagnosticò polmonite e nefrite e ricoverata in una baracca adibita a ospedale dove gli ammalati venivano “curati” con un po’ di aspirina. Qui Frida conobbe Giuditta Di Veroli, anch’essa malata. L’ospedale, in confronto al resto del campo garantiva un pasto migliore; chi non riusciva a guarire da solo veniva selezionato da un medico, caricato sui camion e portato nei forni crematori perché considerato inutile.

Spesso Frida cantava per allietare lo strazio e il dolore delle sue compagne di prigionia, catturando anche l’attenzione della dottoressa dell’ospedale che le chiese di cantare qualcosa in sua presenza. Frida, in onore di sua madre e di tutte le sue compagne cantò la canzone “Mamma”. In quell’istante entrò il medico della selezione che indusse Frida e Giuditta a seguirlo. Il medico consegnò le donne a un’altra Kapò in un altro blocco, lindo e pulito ma di fianco ai forni crematori: erano state adibite al recupero e al rammendo degli abiti di persone morte all’arrivo nel campo di concentramento. Il loro compito era prelevare gli abiti ammassati nelle camere a gas cercare eventuali oggetti di valore e scegliere gli abiti migliori, spediti successivamente in Germania, destinati ai grandi magazzini del Reich. Era un lavoro che Frida ricordava con tanta tristezza perché gli abiti appartenevano a donne, uomini e soprattutto bambini uccisi barbaramente, ma che dall’altro lato le permetteva di vivere perché situato nelle vicinanze dei forni crematori, non subendo così il gelido inverno che gli altri suoi compagni dovevano sopportare. Ogni tanto la domenica Frida veniva chiamata per cantare dinnanzi agli ufficiali tedeschi, e rimediava spesso qualcosina da mangiare che puntualmente divideva con il resto delle compagne.

Una mattina vennero selezionate 200 donne che da Auschwitz furono condotte a Villistat destinate al lavoro di fabbrica; tra queste c’era anche Frida. Dopo qualche giorno di lavori forzati in fabbrica e sotto continuo bombardamento furono di nuovo in cammino per recarsi in un’altra città Terestat (Praga), dove c’era un ghetto circondato da alte mura e con una grande fortezza. Le donne vennero rinchiuse in una delle baracche del ghetto mentre fuori irrompevano forti bombardamenti che durarono fino al giorno seguente. L’indomani, il 9 maggio, arrivarono dei grossi camion della Croce Rossa Internazionale, erano state liberate dai sovietici, l’incubo era finito (nota).

Dai russi, Frida fu consegnata agli americani per essere poi rimpatriata in Italia. All’arrivo a Livorno, 18 mesi dopo, venne assalita dagli abitanti perché presa per una simpatizzante della Repubblica Sociale, in quanto totalmente rasata e vestita in abiti militari; fortunatamente fu riconosciuta da un passante che spiegò la situazione e le evitò altre ingiustizie. A casa si ricongiunse ai familiari sani e salvi. Trovò lavoro come commessa e, successivamente, come reduce di guerra, trovò un pubblico impiego presso l’Ospedale della città.

La sua insegnante, Elena Mancini, fu esiliata da Livorno, il maresciallo Altieri invece non ricevette la pensione che gli spettava come componente della polizia.
Frida si impegnò fin da subito nel raccontare quello che le era capitato in Polonia; si è battuta fino alla morte per testimoniare e far conoscere a tutti la triste esperienza lasciando anche due libri scritti nell’immediato dopoguerra.

Era una donna amata e conosciuta a Livorno, in tutta la Toscana e anche a Roma, dove puntualmente si recava per far visita alle sue “sorelle”, compagne di prigionia.
Morì il 6 dicembre 1992. Livorno ha titolato una strada Frida Misul, in onore alla grande donna che era.

NOTE:

  • Picciotto, L. 1991. Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943- 1945). Milano, Mursia Editore. pag. 447 – Frida Misul
  • Il racconto di Frida è stato tratto da Memorie di deportati livornesi – Il Diario di Frida Misul. Edito da Comune di Livorno

Errina Fornaro Di Veroli

Errina Fornaro Di Veroli nacque a Roma il 14 febbraio 1916. A raccontare la sua storia è il nipote, Elio Limentani. Errina si sposò nell’ottobre 1934, e dal matrimonio nacquero quattro figli: Giovanni, Rosa, Giacomo e Stella. Prima della guerra Errina conduceva una vita tranquilla, arrangiandosi con il lavoro del marito, Agesilao Di Veroli, che faceva l’urtista
(vendeva i souvenir in giro per Roma). errina fornaro di veroli

Abitavano in via Santa Maria Del Pianto n°10 insieme a un’altra famiglia, i Di Porto.
La sera del 23 marzo 1944 Silvio Virghi, un poliziotto in pensione offeso a una gamba, molto conosciuto nel quartiere ebraico, si presentò alla porta delle famiglie Di Veroli e Di Porto accompagnato da due tedeschi, ed entrò con le chiavi di casa perché il capofamiglia Di Porto Giacomo era stato fermato per strada da Enrica Di Porto (detta “Erichetta l’incipriata” per il fatto che si truccava tantissimo, che faceva la spia nonostante fosse di religione ebraica); i tedeschi presero Giacomo e lo portarono a via Tasso dove lo picchiarono rubandogli le chiavi di casa per poter andare ad arrestare tutto il resto della famiglia. Giacomo morì alle fosse Ardeatine il giorno dopo.

Errina venne arrestata con tutta la famiglia Di Porto; al momento dell’arresto, riuscì a nascondere i figli e il marito. Ella sentì per lungo tempo il peso di questa denuncia che raccontava come umiliante, non solo per il fatto che conosceva Silvio Virghi ma anche perché questa persona fece razzia di tutte le sue cose personali. Dopo la guerra Errina lo incontrò nuovamente, ma non fu capace di dirgli niente. Da molti anni il nipote Elio sta portando avanti delle ricerche su chi fosse Silvio Virghi e su eventuali discendenti; ricerche che al momento sono state vane.

Errina Fornaro Di Veroli non fu l’unica a raccontare di essere stata denunciata da Silvio Virghi; pare che costui abbia fatto portare via più di sessanta persone a cinquemila lire ciascuna. La Comunità Ebraica di Roma ha stilato un lungo elenco di delatori in base alle interviste raccolte dai sopravvissuti e le denunce fatte tra il 1945 e il 1955. Tutti questi delatori sono rimasti impuniti, nessuno ha subito regolare processo, tranne Celeste Di Porto detta La Pantera Nera (nota), una ragazza ebrea, molto conosciuta nel ghetto, che durante l’occupazione nazista fece delazioni collaborando con i fascisti.

Errina quindi venne arrestata, portata al carcere di Regina Coeli e trasferita al campo di transito di Fossoli, dove il 16 maggio 1944 fu deportata ad Auschwitz (nota). Fece il viaggio con il suocero, un uomo molto alto, che per tutto il tempo si occupò di raccogliere l’acqua piovana con la mano per darla da bere alle persone del vagone. Il suocero per lavoro parlava tedesco e, arrivati ad Auschwitz il 22 maggio 1944, disse alla nuora “Rina, tu può darsi che a casa ci torni ma io questa sera sarò già morto”.

Errina superò la selezione (a differenza del suocero mandato subito alle camere a gas), venne immatricolata con il numero A5363 e selezionata per il blocco degli esperimenti. Qui cadde nelle mani di Schumann e Clauberg (nota), dove divenne una cavia e subì terribili interventi e test di laboratorio senza effetti anestetici; al ritorno dalla terribile esperienza scoprì di essere stata sterilizzata.
Uscita dal blocco degli esperimenti venne destinata ai lavori forzati e trasferita al campo di Ravensbruck. Errina fu liberata dall’esercito russo il 4 maggio 1945, e fece ritorno a Roma a settembre dello stesso anno.

Come altri deportati, Errina non raccontò ciò che le era capitato. L’episodio che fece scaturire in lei il desiderio di testimoniare il suo dramma ciò che accadde una mattina del 1990 in via Ugo Ojetti a Roma. Le persone si svegliarono con le serrande dei negozi imbrattate di offese contro il popolo ebraico. La paura di poter rivivere il dramma fu la forza dei sopravvissuti di far conoscere le atrocità a cui erano stati sottoposti nei campi di sterminio.

Il ritorno dalla prigionia per tutti i sopravvissuti è stato un passaggio molto difficile; ancora di più per chi, come Errina fu vittima di esperimenti ginecologici e dermatologici. Nel raccontare la propria esperienza, Errina aveva paura di trovarsi di fronte ad un muro di persone impossibilitate a capire il terribile stato in cui viveva. Due sono gli esempi nella vita di Errina che fanno capire il disagio a cui erano sottoposte le donne al rientro. Il primo risale a quattro mesi dopo il ritorno da Auschwitz. Una mattina Errina si fermò a un banco della frutta e un signore le disse “Siete tornata! Ah ma allora siete un avanzo del campo di concentramento!”. Il secondo risale a una visita dal ginecologo, a cui si sottopose poco dopo esser rientrata a casa, accompagnata dal marito. Il dottore visitandola, sentenziò “Signora purtroppo non posso dirle quello che ha perché non capisco che cosa le hanno fatto…”. Alla richiesta del marito su come fosse andata la visita, Errina preferì tacere la verità, trovando la scusa della stanchezza e della depressione.

Oggi avremmo parlato tranquillamente di problematiche femminili, disagi e quant’altro, ma all’epoca, negli anni ’40 e ’50 nell’Italia “perbene”, c’era ancora la cappa di un’educazione derivante dai Savoia, c’era una Chiesa che in maniera molto forte tarpava le ali, e che sotto il papato di Pio XII, non aveva ancora chiesto scusa degli errori e dei peccati commessi. Per far sì che ciò accadesse, si è dovuto aspettare Papa Giovanni Paolo II, che in un suo viaggio ad Auschwitz, appena arrivato, baciò la terra chiedendo perdono.

Al ritorno queste donne si chiusero in un mutismo fatto di pudore. Non era semplice (anche a distanza di anni) raccontare quello che avevano subito. Donne che vivevano come signore improvvisamente catapultate all’inferno, che si dovevano tagliare i polsi e colorare le guance per fingersi sane e superare ogni giorno la selezione, che avevano visto sbranare le proprie compagne dai cani o aspettato che morisse la persona di fianco a loro per rubargli le scarpe… Se avessero realmente raccontato tutto questo in un’epoca in cui tutta l’Italia voleva dimenticare gli orrori subiti, sarebbero state scambiate per pazze, o peggio ancora potevano sentirsi dire “chissà come ti sei salvata là dentro”… Il silenzio fu poi interrotto a partire dagli anni ’70-’80, dopo l’uscita di film come Olocausto, Kapò, Schindler’s List quando si cominciò a diffondere e a capire che cosa fosse stata davvero la Shoah. Il giorno in cui Errina morì, il 4 febbraio 1997, la mattina presto uscì di casa e buttò via tutto quello che si era portata appresso dal campo di concentramento: il porta pranzo, il fazzoletto, il vestito con cui era tornata. Di tutto il “bagaglio” si è salvato solamente un cucchiaio con il quale lei cucinava, l’aveva scambiato per una mezza razione di pane e rappresentava per lei la vita. Quel cucchiaio oggi è gelosamente conservato dal nipote.

NOTE:

  • Wikipedia voce Celeste Di Porto
  • Picciotto, L. 1991. Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943- 1945). Milano, Mursia Editore. pag. 297 – Errina Fornaro Di Veroli
  • Horst Schumann è stato un medico radiologo tedesco che partecipò, nell’ambito del programma nazista di “igene della razza”, a sperimentazioni di sterilizzazione di massa tramite irradiazioni di raggi X e di castrazione nel campo di internamento di Auschwitz, nel famigerato Block 10. Lavorava a stretto contatto con Carl Clauberg. (Wikipedia, voce Horst Schumann)
  • Carl Clauberg è stato un medico tedesco che condusse esperimenti sulla sterilizzazione usando come cavie le donne rinchiuse nei campi di sterminio di Auschwitz e Ravensbruck, quest’ultimo destinato prevalentemente all’internamento di bambini e donne; circa 300 donne morirono durante o nei giorni seguenti alle operazioni di sterilizzazione e molte altre, sopravvissute, furono afflitte da gravissime infermità fisiche e psichiche. (Wikipedia, voce Carl Clauberg)

Sabatino Finzi

Sabatino Finzi nacque l’8 gennaio 1927 a Roma in via del Tempio n°4. Viveva insieme al padre, alla madre, alla sorella, ai nonni materni e tre zii, una famiglia giovane e unita. Il padre lavorava come rappresentante di tessuti. Dopo le leggi razziali del 1938 Sabatino fu costretto ad andare in una scuola adibita per gli ebrei, coadiuvata da persone di religione cattolica, nei pressi del Colosseo. La famiglia partecipò anche alla donazione dei 50 kg d’oro (nota) credendo così salvarsi la vita dalla persecuzione.

Sabatino Finzi - Roma
Sabatino Finzi – Roma

La notte del 16 ottobre 1943 – ricorda Sabatino (nota) – “passarono due motociclette a lanciare delle bombe a mano per impaurire le persone e non permettergli di uscire di casa, cosicché la mattina all’alba i tedeschi poterono irruppere nel ghetto prelevando tutte le famiglie dalle loro case”. La famiglia Finzi fu portata al collegio militare vicino all’ospedale del Santo Spirito. La mattina seguente fu condotta alla stazione Tiburtina dove erano già pronti i treni con i vagoni bestiame per caricare tutti gli ebrei: 40 persone a vagone adagiate in condizioni pessime. Sabatino, in un’intervista rilasciata alla Provincia di Roma, ricorda che fece quasi tutto il viaggio in piedi per poter dare agio alle persone più anziane di rimanere sedute per terra.

Il viaggio in treno durò 8 giorni, senza cibo. Solamente in Veneto le persone sapevano che stavano transitando i carri con i deportati, e dalle feritoie riuscirono a passargli del cibo.
La sera del 23 ottobre il treno arrivò a Birkenau, con otto gradi sotto lo zero e la neve.

All’arrivo fu fatta subito la selezione tra chi doveva andare ai forni e chi poteva lavorare. Sabatino credeva che il momento della selezione fosse l’attimo che dividesse gli uomini dalle donne per condurli ai lavori forzati e non che fosse una valutazione mirata a uccidere immediatamente le persone.

Sabatino fu l’unico della famiglia a superare la selezione e a entrare nel campo di Birkenau, i genitori, la sorellina, i nonni e gli zii furono mandati nelle camere a gas.
Venne rasato e immatricolato come 158556 (nota), ricordando perfino il volto dell’ebreo che gli incise il numero e la delicatezza con cui gli fu tatuato. Successivamente fu mandato in quarantena, dove venne sottoposto a delle iniezioni, e in seguito avviato al lavoro nelle miniere di carbone con altre 150 persone, in una sezione del campo di Auschwitz. Qui il carbone veniva mescolato alla pietra lavagna; prima di metterlo sui nastri trasportatori, il carbone veniva separato da tale materiale. Il ruolo di Sabatino era quello di addetto alla scissione dei materiali.

Nel campo Sabatino prese una bastonata alla base della testa da un Kapò, i cui segni (le cicatrici) sono rimasti indelebili. La causa della violenza subita fu che alla richiesta del Kapò di una tazza, Sabatino la porse, senza pensarci, con un dito dentro. La ferita, a cui si aggiunse un ascesso, fu curata con dei mezzi di fortuna e sterilizzata da un compagno di baracca; solo in un secondo momento si scoprì che costui era un chirurgo, ex-docente all’Università di Pisa.

Dopo un anno e due mesi dalla deportazione nel campo di concentramento l’avanzata dei russi era imminente; Sabatino, assieme ad altri deportati fu condotto al campo di Buchenwald, dove rimase per un altro anno. L’11 aprile 1945 anche il campo di Buchenwald fu liberato, i prigionieri vennero curati dalla Croce Rossa e tenuti in quarantena per evitare contagi.

Sabatino nel frattempo si era fatto male a una gamba e il taglio si era infettato; fu così portato in treno all’ospedale di Bolzano e, successivamente, all’ospedale Sant’Orsola di Bologna dove fu curato amorevolmente e dove venne raggiunto da alcuni zii romani sopravvissuti che erano riusciti a rintracciarlo.

Al rientro a casa Sabatino aveva 17 anni; gli unici a cui poté raccontare l’esperienza del campo sono stati gli zii, reduci a loro volta da tale vicissitudine. Lo zio aveva un grande negozio di pezzi di ricambi per automobili e gli dette lavoro. A Roma Sabatino conobbe la moglie e dal matrimonio nacquero due figli (in questo progetto è intervenuto il figlio Giorgio) e, in seguito, molti nipoti (tutti maschi).

Gli occhi lucidi al momento dell’intervista testimoniano che Sabatino non è mai uscito dal campo di sterminio. Alla moglie ha parlato dell’orrore vissuto solamente dopo 20 anni di matrimonio; per quanto concerne i figli, non ha mai trovato la forza di narrare la propria esperienza.

Il pensiero comune di ogni persona sopravvissuta è credere che il razzismo sia un pericolo imminente; nell’intervista Sabatino si sofferma su questo dicendo che qualora fossero tornati i tedeschi a prenderlo non si sarebbe fatto trovare impreparato. Aveva imparato a utilizzare armi professionali, possedendo nove fucili in casa e aveva fatto in modo che anche i suoi figli sapessero utilizzarle, a dimostrazione di quanto il mostro nazista fosse sempre alla porta.

NOTE:

  • Durante l’occupazione di Roma i tedeschi obbligarono la comunità ebraica a raccogliere e consegnare 50 chili d’oro. L’intento delle S.S. nei confronti degli ebrei romani fu innanzitutto quello di non insospettirli e di proporre una via di salvezza in cambio di un contropartita in oro. Il mattino del 26 settembre le autorità italiane invitarono il Presidente della Comunità Israelitiche italiane, Dante Almansi e il presidente della Comunità Israelitica di Roma, Ugo Foà, a recarsi nell’ufficio del Comandante della polizia tedesca di Roma, Herbert Kappler il quale riferì loro queste parole «Noi tedeschi vi consideriamo unicamente ebrei e come tali nostri nemici, […] i peggiori nemici contro i quali stiamo combattendo. […] Non abbiamo bisogno delle vostre vite, né di quelle dei vostri figli, abbiamo bisogno invece del vostro oro. Entro trentasei ore dovete versare cinquanta chilogrammi di oro altrimenti duecento ebrei saranno presi e deportati in Germania». I due presidenti disperavano di poter trovare così tanto oro in così poco tempo. Ad ogni modo, portando a conoscenza della maggior parte degli ebrei residenti a Roma la richiesta tedesca, in poco tempo pervenne un’offerta di oggetti d’oro, per lo più cari ricordi di famiglia. Poco prima della scadenza delle trentasei ore, ne vennero raccolti ottanta chilogrammi (trenta dei quali nascosti) e consegnati a Kappler. Gli ebrei si fidarono dei tedeschi, ma questi già nei giorni successivi devastarono e saccheggiarono i locali del Tempio Maggiore ebraico e la biblioteca della Sinagoga. Il 16 ottobre poi ultimarono il loro lavoro deportando tutti gli ebrei del ghetto.
  • Cfr.: 16 ottobre 1943: http://www.16ottobre1943.it/it/loro-di-roma.aspx
  • Le interviste di Sabatino Finzi sono visibili sul sito di Memoro – la banca della memoria http://www.memoro.org/it/testimone.php?ID=2332
  • Picciotto, L. 1991. Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943- 1945). Milano, Mursia Editore. pag. 286 – Sabatino Finzi