Tutti gli articoli di Luisa Doveri

I SOPRAVVISSUTI E LE GENERAZIONI FUTURE

Dai racconti dei figli e dei nipoti degli ex-deportati, spesso non esiste un confine netto con la Shoah.

I figli e i nipoti hanno la sensazione di essere nati e cresciuti con l’elemento Auschwitz presente. Poi, col passare degli anni il pensiero si è andato fortificando con racconti o esperienze particolari vissute (ad esempio un momento di vita in cui il comportamento del sopravvissuto poteva essere riconducibile all’esperienza del campo), ma la sensazione di conoscere la Shoah da sempre, è innata in loro.

I figli e i nipoti hanno assorbito come spugne il campo di sterminio, dai loro genitori, dai loro nonni e dai loro zii; ma mentre i figli hanno subito inconsciamente l’esperienza dalla Shoah passatagli dal genitore (come una colpa), i nipoti sono considerati come persone da salvaguardare. Loro al contrario dei figli, chiedono, fanno domande al sopravvissuto. Hanno addosso la Shoah ma non come una colpa, bensì come un elemento da far conoscere affinché non si ripetano mai più le atrocità subite.

In un certo modo i sopravvissuti hanno trasmetto ai loro familiari atti di vita vissuta nel campo, alcuni sono stati battezzati, altri hanno dovuto imparare il tedesco (“perché non si sa mai”), altri hanno imparato a sparare, hanno armi nascoste, cibo in grande quantità, il senso di dovere di memoria, tutti atteggiamenti atti a tenerli pronti e prepararli in tempo qualora arrivasse un altro attacco dei nazisti.

Aver avuto un contatto diretto con un testimone della Shoah, è stato un privilegio o un peso?

Con questa domanda si è voluto far capire quanto sia bello e profondo poter ascoltare e conoscere la Storia, e avere l’onore e il privilegio di sentirsi parte diventando testimone. Nel rovescio della medaglia però ci sono sfaccettature del privilegio che possono influenzare il modo in cui si vive, gli atteggiamenti che si assumono, i pensieri che si hanno, il peso che si porta.

Il privilegio di averli conosciuti, e la paura del domani sono gli elementi base di queste risposte, è come se dicessero: è stato un onore poter conoscere e sapere come sono andate le cose, è stato un onore essere cresciuto da una persona che mi ha insegnato il rispetto e la tolleranza, ma in un modo o nell’altro mi ha trasmesso le sue paure e i fantasmi nascosti del campo di concentramento con i quali inevitabilmente convivo ma anche grazie ai quali posso battermi per una società più solidale.

SPIEGARE, RICORDARE, FARE MEMORIA

“Si deve divulgare, si deve portare l’esempio di vita di amore e di aiuto verso il prossimo”, queste parole sono sulla bocca di tutte le persone che hanno una missione, il dovere di memoria perché hanno conosciuto la Shoah e adesso hanno il compito di tramandarla. Questo messaggio diventa quindi l’obiettivo primario di tutti gli intervistati, è un’investitura che a loro è stata concessa, un vero e proprio passaggio del testimone, un testimone che dovrebbe a sua volta contenere la stessa Shoah riprodotta in tutti i suoi dettagli.

Nel 1955, in occasione del decimo anniversario della Liberazione e della fine della Repubblica sociale italiana e dell’occupazione nazista, la Federazione Giovani Ebrei d’Italia (FGEI) costituì il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea – CDEC, avente per scopo, secondo il suo primo Statuto del 1957, la ricerca e l’archiviazione di documenti di ogni tipo riguardanti le persecuzioni antisemite in Italia e il contributo ebraico alla Resistenza e la loro divulgazione. Da ciò iniziò una grande raccolta di tutta la documentazione rintracciabile inerente al periodo dell’occupazione nazista.

Alcuni sopravvissuti avevano già iniziato a parlare, alcuni trovarono terreno fertile e lo fecero subito al loro rientro, altri come si è visto, si rinchiusero nel loro silenzio pudico per non turbare parenti e amici con i loro racconti.

Ma come si può spiegare la Shoah a qualcuno che non l’ha vissuta direttamente?

clicca qui per scoprire le risposte a questa domanda!

LE TESTIMONIANZE E IL FARE MEMORIA:

Al sopravvissuto viene chiesto di onorare un dovere di memoria, al quale non può moralmente sottrarsi. La testimonianza è dunque cambiata: è un vero e proprio imperativo sociale che fa diventare del testimone un apostolo e un profeta. Così i sopravvissuti iniziarono a ripensare il passato con la speranza di progettare il futuro, cioè la loro memoria. La memoria dell’orrore doveva trasformarsi in una volontà di cambiare le cose, affinché certe situazioni non dovessero più ripetersi, o per lo meno doveva servire a memorizzare quelli che erano i sintomi da cui poteva eventualmente scaturire un’altra Shoah. Il tempo però è malvagio, e oggi di loro rimane solamente l’iscrizione dei loro eventi nella Storia (salvo qualche ultimo sopravvissuto ancora in vita). Al loro posto ci sono i figli e i nipoti che si interrogano come riuscire a portare avanti le volontà dei loro cari, in particolar modo quanto il ricordo che essi hanno dei sopravvissuti, possa diventare una memoria.

Come può il ricordo diventare Memoria e non semplicemente storia? clicca qui e guarda tutti i video!

IL GIORNO DELLA MEMORIA

Istituzione del “Giorno della Memoria” in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti.

Art. 1
La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetti i perseguitati.
Art. 2
In occasione del “Giorno della memoria” di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico e oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere.
La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato
Roma, addì 20 luglio 2000 (5 Legge n° 211 del 2000)

Il 27 gennaio 2001 viene istituito dal Parlamento italiano come Giorno della Memoria in occasione della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz per opera delle truppe sovietiche. In questo giorno ci si impegna a organizzare cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico, ai deportati militari e politici italiani e a tutti gli altri deportati nei campi nazisti.

Chi della memoria ne ha fatto un obiettivo di vita, chi ha avuto l’onore di diventare memoria e di entrare nell’ingranaggio dell’essere testimone, come vive il 27 gennaio?

clicca qui per guardare i video sul Giorno della Memoria!

 

RANCORE PER IL POPOLO TEDESCO

I sopravvissuti non potevano sentir parlare tedesco e difficilmente e parlavano dei tedeschi. Chi aveva la forza di andare tornava a visitare i campi di sterminio considerati i cimiteri dei loro cari defunti. C’era anche chi non ha mai avuto il coraggio di tornare e chi invece lo faceva portandosi però i fiori da casa.

Nel periodo dopo guerra in Germania è stata fatta un’epurazione che in Italia non è avvenuta, i tedeschi hanno avuto la capacità di mettersi in discussione, e dichiarare le loro colpe.
Già nell’inverno del 1942, i governi delle nazioni Alleate annunciarono pubblicamente la propria determinazione a punire i crimini di guerra compiuti dai Nazisti.

Il 17 dicembre 1942 i capi di governo di Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica emanarono la prima dichiarazione congiunta in cui si menzionava ufficialmente l’uccisione in massa degli ebrei europei e in cui si esprimeva l’intenzione di perseguire i responsabili di tutte le violenze contro le popolazioni civili.

TMI

Anche se c’era chi sosteneva la necessità di un’esecuzione immediata dei colpevoli, gli Alleati decisero di istituire un Tribunale Militare Internazionale – TMI.

 

 

 

 

 

I processi ai più alti funzionari dello Stato tedesco di fronte al Tribunale

si aprirono ufficialmente a Norimberga, il 20 novembre 1945.

adolf-eichmann

 

Il processo più famoso per criminale di guerra si svolse a Gerusalemme, nel 1961, ad Adolf Eichmann, uno dei principali architetti della deportazione degli ebrei europei.

Eichmann catturato l’11 maggio 1960 a Buenos Aires, si ritenne per tutto il processo non colpevole.

 

Scopri cosa pensano
i figli e i nipoti dei sopravvissuti
riguardo al popolo tedesco…
clicca qui per guardare i video!

IL RACCONTO DEI DEPORTATI

Nel periodo immediatamente dopo la Shoah, i sopravvissuti non emergono nella Società a parlare delle loro esperienze, ma sono riuniti semplicemente in associazioni, cioè in luoghi di riunione e di aiuto reciproco, e non hanno ambizioni di rivolgersi ad altri che non abbiano vissuto la stessa esperienza.

Per anni quindi non si è parlato molto di deportazione, tutti sapevano solo che queste persone erano dei sopravvissuti.
I perseguitati per molto tempo furono abbandonati a una gestione solitaria del ricordo dell’esperienza appena vissuta. L’Italia aveva bisogno di forza, pensieri positivi e voglia di andare avanti. Nessuno voleva intristirsi ulteriormente con i racconti dei campi di concentramento. Cosa ancor peggiore chi parlava non veniva creduto. La verità è che nell’immediato dopo guerra (ma anche negli anni successivi, fino ai primi documentari reali), nessuno conosceva realmente di che cosa erano stati capaci i nazisti.

Reazioni simili fecero tacere i sopravvissuti per molti anni, alcuni addirittura per sempre visto che lo stesso Schulim ha conservato un grande segreto fino alla morte.

Solamente all’inizio degli anni Settanta sembra emergere un interesse per la Shoah, vengono pubblicati i primi scritti sulla deportazione e sui campi di sterminio e le testimonianze audiovisive cominciano ad essere raccolte in modo sistematico.

Guarda i video del racconto dei deportati… clicca qui!

 

Difficilmente un sopravvissuto ha raccontato l’orrore, chi ha parlato fin da subito (Frida, Settimia) ha dovuto mantenere quel decoro, raccontava gli orrori subiti senza oltrepassare il limite dell’ascoltabile. Chi invece non ha avuto il coraggio di parlare, ha inevitabilmente trasmetto la paura e le violenze subite ai propri cari, ansie di fantasmi di avvenimenti e persone che i figli e nipoti non hanno vissuto e conosciuto.

Tutti i racconti, detti, omessi, vissuti, sentiti, alla fine però hanno un comun denominatore: in ogni racconto il sopravvissuto troverà sempre il modo per far giungere il messaggio della solidarietà, della necessità di stare insieme, della libertà.

IL RITORNO A CASA

Si sa che la liberazione dei campi di sterminio non è stata la data in cui anche i deportati hanno potuto far ritorno nella loro patria. Sotto la tutela delle truppe alleate furono organizzati dei centri di raccolta, istituiti ospedali, dove i sopravvissuti furono curati e riabilitati alla vita. Molti di loro speravano di ritrovare i familiari dispersi e si misero a cercarli, a chiederne notizie, e a prospettarne il ritorno nella mente: attese destinate spesso a un’amara delusione; di tutto il clan familiare non era rimasto nessuno, non era sopravvissuto nessuno oltre a loro.

La delusione provocava un senso di intollerabile solitudine, ben presto seguito dalla consapevolezza di aver perduto non solo i propri familiari, ma anche la madrepatria. Sapere che non sarebbero mai più tornati dove erano nati e cresciuti, che le loro case, le Comunità, erano state spazzate via, era anch’esso un colpo violentissimo.

Il processo di reinserimento fu lento e doloroso, non ci si doveva ricostruire solo come ex deportato, come colui che tornava in un ambiente diverso, ma anche come persona che tornava in un paese provato dalla guerra, dove le famiglie erano decimate, c’era la necessità di garantirsi un livello di sopravvivenza economica e, soprattutto, al rientro non erano stati istituiti dei “comitati d’accoglienza”, l’Italia era un paese da ricostruire e tutti, anche chi era rimasto e non aveva visto l’orrore dei campi, sentivano il bisogno di ricominciare, nessuno poteva occuparsi di “ridare una vita” ai sopravvissuti perché ognuno doveva guardare a se stesso «Guardati con sospetto, trattati con insofferenza, quasi fossero illegittimi usurpatori coloro che reclamavano la casa o i beni rubati, il lavoro da cui erano stati allontanati, i diritti e la dignità che gli erano stati strappati»(Schwarz,G., 2004. Ritrovare se stessi. Gli ebrei nell’Italia postfascista. Roma-Bari, Editori Laterza, cit., pp. II, 13-4)

All’inizio chi era scampato alla deportazione chiedeva che cosa fosse successo, si pensava che fossero stati condotti ai lavori forzati, nessuno poteva immaginarsi una cosa simile; i deportati, spesso perché non lo potevano sapere, spesso perché non lo volevano dire aumentando così la tristezza e le angosce, evitavano di raccontare che fine avesse fatto un figlio, un genitore, un parente di quelli che erano rimasti in Italia. Ma ad ogni loro domanda inevitabilmente la mente tornava ai fantasmi del passato recente, ed ecco che improvvisamente era di nuovo Auschwitz.

Guarda i video del ritorno a casa dei sopravvissuti… clicca qui!

L’INIZIO DELLA PERSECUZIONE

Dal 1938 al 1945 l’Italia fascista fu ufficialmente un paese antisemita.

Si può dividere il periodo in esame in due fasi:

  • fino al 25 luglio 1943 si ebbe la “persecuzione dei diritti degli ebrei”
  • dall’8 settembre al 25 aprile 1945, la “persecuzione delle vite degli ebrei”

Il periodo della persecuzione dei diritti può essere convenzionalmente fatto iniziare nel febbraio 1938 quando il Ministero dell’Interno (retto da Mussolini) dispose il censimento della religione professata dai suoi dipendenti; il 22 agosto 1938 venne effettuato un censimento generale, a impostazione razzista, degli ebrei.

Nel frattempo il 14 luglio 1938 era stato diffuso il primo atto ufficiale antiebraico, sia pure solo teorico, con la pubblicazione de Il manifesto degli scienziati razzisti detto anche manifesto sulla purezza della razza. Questo documento, basato su presupposti pseudoscientifici, articolato in dieci punti, costituì la base ideologica per l’antisemitismo di stato:

1) le razze umane esistono;
2) esistono grandi razze e piccole razze;
3) il concetto di razza è puramente biologico;
4) la popolazione dell’Italia è nella sua maggioranza di origine ariana e la sua civiltà è ariana;
5) è una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici. La composizione razziale di oggi è la stessa di quella che era 1000 anni fa; gli italiani di oggi rimontano quindi nell’assoluta maggioranza a famiglie che abitano l’Italia da almeno un millennio;
6) esiste ormai una pura “razza italiana”;
7) è tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti;
8) è necessario fare una netta distinzione fra i mediterranei d’Europa e gli Orientali e gli Africani;
9) gli ebrei non appartengono alla razza italiana ma rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia, perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli italiani;
10) i caratteri fisici e psicologici puramente europei degli italiani non devono essere alterati in nessun modo.

Per scoprire com’era la vita degli ebrei prima del campo di sterminio clicca qui

Posta dunque la base ideologica all’antisemitismo di stato, la persecuzione procedette con sempre maggiore rapidità.

Con queste leggi discriminatorie e persecutorie, gli ebrei furono messi progressivamente al bando dalla vita pubblica italiana: espulsi da scuole, dagli impieghi pubblici, emarginati dalle libere professioni, eliminati dalle attività culturali, espulsi dalle attività commerciali, vennero vietati matrimoni misti di ariani con semiti.

Con gli ebrei i nazisti intrapresero subito la politica di arresto, concentramento, deportazione, eliminazione e rapina dei beni.

 La Shoah causò circa 15 milioni di morti in pochi anni, tra cui 6 milioni di ebrei, di ogni sesso ed età.

OLOCAUSTO o SHOAH?

Ci sono sostanzialmente due termini per descrivere storicamente lo sterminio della popolazione ebraica e di altre tipologie di comunità umane nel corso della prima metà del XX secolo ad opera dei nasisti: Olocausto e Shoah.

Il termine Olocausto indica il genocidio perpetrato dalla Germania nazista e dai suoi alleati nei confronti degli ebrei d’Europa e di tutte le altre categorie ritenute indesiderabili (gli Zingari, i disabili e le popolazioni slave e nomadi – Polacchi, Russi e altri –alcuni gruppi vennero invece perseguitati per le loro idee politiche, per il loro credo ideologico o a causa di determinate caratteristiche comportamentali: in particolare, coloro che credevano negli ideali del Comunismo, i Testimoni di Geova e gli omosessuali).

La parola deriva dal greco ὁλόκαυστος (olokaustos, “bruciato interamente”), a sua volta composta da ὅλος (olos, “tutto intero”) e καίω (kaio, “brucio”) ed era inizialmente utilizzata ad indicare una cerimonia religiosa di sacrificio animale praticata nell’antichità specialmente da greci ed ebrei, durante la quale la bestia veniva sacrificata a Dio e bruciata interamente. La bestia veniva sacrificata su un altare e il fumo che saliva doveva essere “gradito al Signore”. In quest’ottica, il termine Olocausto, utilizzato per indicare lo sterminio degli ebrei (e di tutti gli altri deportati), può essere fuorviante in quanto, anche se l’idea del fumo che sale può esser ricondotta al fumo che usciva dai camini dei forni crematori, resta il fatto che il sacrificio animale era un gesto volontario, di offerta a Dio.

Diverso invece è il termine Shoah, in lingua ebraica ,השואה, HaShoah, legato soprattutto all’idea di catastrofe, distruzione.

Questo vocabolo venne utilizzato per la prima volta nel 1938 in Palestina sottoposto al mandato britannico durante una riunione del Comitato Centrale del Partito Socialista, in riferimento al pogrom della “Notte dei Cristalli”, la notte tra il 9 e 10 novembre 1938 quando, in Germania, Austria e Cecoslovacchia vennero distrutti 7500 negozi ebraici e incendiate le sinagoghe, notte in cui alla polizia venne dato ordine di non intervenire.

Shoah definisce nella sua interezza il genocidio della popolazione ebraica d’Europa.

Silvia e Giuditta Di Veroli

Giuditta e Silvia Di Veroli, rispettivamente madre e zia di Carla Sciunnach, e zie di Grazia Di Veroli, furono deportate entrambe ad Auschwitz e ritornate a pochi giorni di distanza l’una dall’altra.
Figlie di Giacomo Di Veroli e Angela Funaro nacquero a Roma, Giuditta il 3 gennaio 1918,
e il 28 agosto 1914 Silvia (nella foto a destra Giuditta, nella foto a sinistra Silvia); avevano anche un fratello, Michele.

Schermata 02-2457431 alle 09.12.27Schermata 02-2457431 alle 09.12.17

Conducevano una vita tranquilla, Giuditta lavorava come commessa in via Appia, gestiva un negozio di tessuti.

Il giorno che sono state arrestate, 24 dicembre 1943, per mano di un collega del padre che aveva fatto la denuncia alle autorità, Giuditta era a lavoro ma stava male, e la portiera del negozio accanto voleva che rimanesse da lei, invece tornò a casa e trovò i tedeschi che erano venuti a prenderli.

Tutta la famiglia venne arrestata e portata al carcere di Regina Coeli per poi essere trasferita al campo di smistamento di Fossoli. Da qui partì il convoglio numero nove del 5 aprile 1944 destinato ad Auschwitz.

Silvia venne immatricolata con il numero 76788, mentre di Giuditta non si conosce l’immatricolazione (nota).
Quando liberarono i campi Silvia si trovava a Theresienstadt (liberata il 9 maggio 1945) e Giuditta a Kaunitz (liberata il primo aprile 1945). Rientrarono entrambe a Roma nell’agosto dello stesso anno. Le sorelle tornarono a distanza di un giorno l’una dall’altra, i genitori morirono all’interno del campo di sterminio, mentre il fratello, Michele, risulta liberato ma disperso. Un giorno, durante la festività di Pesach, la Pasqua Ebraica, sentirono il fischio tipico che faceva il fratello quando rientrava in casa, uscirono subito tutti e si precipitarono per le strade ma non c’era nessuno.

Al rientro a Roma Silvia e Giuditta trovarono la casa occupata da alcuni parenti lontani, che si erano impossessati di tutti i beni, dopo vari litigi, questi restituirono tutto alle sorelle. Silvia poi fortunatamente ebbe il lavoro del padre, e riuscì superare il dolore del campo.

Giuditta aveva un carattere un po’ più ostile, raccontava ma molto meno della sorella; d’estate portava la maglia a maniche lunghe per nascondere il numero, Silvia invece parlava della deportazione più volentieri, leggeva i libri, guardava film sulla Shoah e tornava ad Auschwitz (portandosi però i fiori da Roma), Giuditta non è mai voluta tornare. Nonostante gli orrori vissuti le sorelle si sono ricreate una famiglia, abitando insieme; Giuditta in seguito si sposò ed ebbe due figlie, Silvia invece prese a cuore una bambina figlia di parenti morti nei campi di concentramento che adottò come se fosse sua. Entrambe non hanno mai fatto trasparire l’orrore del campo di sterminio ai propri familiari, cercando sempre di vivere serenamente guardando avanti nonostante gli spettri del passato.

NOTE:

  • Picciotto, L. 1991. Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943- 1945). Milano, Mursia Editore. pag. 260 – Silvia DI Veroli; pag. 257 – Giuditta Di Veroli