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Silvia e Giuditta Di Veroli

Giuditta e Silvia Di Veroli, rispettivamente madre e zia di Carla Sciunnach, e zie di Grazia Di Veroli, furono deportate entrambe ad Auschwitz e ritornate a pochi giorni di distanza l’una dall’altra.
Figlie di Giacomo Di Veroli e Angela Funaro nacquero a Roma, Giuditta il 3 gennaio 1918,
e il 28 agosto 1914 Silvia (nella foto a destra Giuditta, nella foto a sinistra Silvia); avevano anche un fratello, Michele.

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Conducevano una vita tranquilla, Giuditta lavorava come commessa in via Appia, gestiva un negozio di tessuti.

Il giorno che sono state arrestate, 24 dicembre 1943, per mano di un collega del padre che aveva fatto la denuncia alle autorità, Giuditta era a lavoro ma stava male, e la portiera del negozio accanto voleva che rimanesse da lei, invece tornò a casa e trovò i tedeschi che erano venuti a prenderli.

Tutta la famiglia venne arrestata e portata al carcere di Regina Coeli per poi essere trasferita al campo di smistamento di Fossoli. Da qui partì il convoglio numero nove del 5 aprile 1944 destinato ad Auschwitz.

Silvia venne immatricolata con il numero 76788, mentre di Giuditta non si conosce l’immatricolazione (nota).
Quando liberarono i campi Silvia si trovava a Theresienstadt (liberata il 9 maggio 1945) e Giuditta a Kaunitz (liberata il primo aprile 1945). Rientrarono entrambe a Roma nell’agosto dello stesso anno. Le sorelle tornarono a distanza di un giorno l’una dall’altra, i genitori morirono all’interno del campo di sterminio, mentre il fratello, Michele, risulta liberato ma disperso. Un giorno, durante la festività di Pesach, la Pasqua Ebraica, sentirono il fischio tipico che faceva il fratello quando rientrava in casa, uscirono subito tutti e si precipitarono per le strade ma non c’era nessuno.

Al rientro a Roma Silvia e Giuditta trovarono la casa occupata da alcuni parenti lontani, che si erano impossessati di tutti i beni, dopo vari litigi, questi restituirono tutto alle sorelle. Silvia poi fortunatamente ebbe il lavoro del padre, e riuscì superare il dolore del campo.

Giuditta aveva un carattere un po’ più ostile, raccontava ma molto meno della sorella; d’estate portava la maglia a maniche lunghe per nascondere il numero, Silvia invece parlava della deportazione più volentieri, leggeva i libri, guardava film sulla Shoah e tornava ad Auschwitz (portandosi però i fiori da Roma), Giuditta non è mai voluta tornare. Nonostante gli orrori vissuti le sorelle si sono ricreate una famiglia, abitando insieme; Giuditta in seguito si sposò ed ebbe due figlie, Silvia invece prese a cuore una bambina figlia di parenti morti nei campi di concentramento che adottò come se fosse sua. Entrambe non hanno mai fatto trasparire l’orrore del campo di sterminio ai propri familiari, cercando sempre di vivere serenamente guardando avanti nonostante gli spettri del passato.

NOTE:

  • Picciotto, L. 1991. Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943- 1945). Milano, Mursia Editore. pag. 260 – Silvia DI Veroli; pag. 257 – Giuditta Di Veroli

Frida Misul

Frida nacque a Livorno il 3 novembre 1919 da Gino Misul e Zaira Samaia.

A raccontare la sua storia sono i libri che ha lasciato come memoria indelebile quali Il diario di Frida Misul e Fra gli artigli del mostro nazista, in collaborazione con l’Associazione Nazionale ex- internati, Sez. Livorno, il figlio Roberto Rugiadi e la nipote Sarah Rugiadi

Frida Misul

Frida amava cantare, stava diventando una cantante soprano presso una professoressa di musica, Elena Mancini (la persona che poi ha contribuito a farla arrestare), faceva spesso concerti nella sua città natale e lavorava nella friggitoria di famiglia. Frida era una ragazza normalissima, con una famiglia modesta, osservante, felice, unita. Appena arrivarono voci sul fatto che i tedeschi stavano creando limitazioni agli ebrei, Frida cambiò il cognome in Masoni per continuare a esibirsi nei teatri.

Dopo il 1943 Livorno subì dei grossi bombardamenti, e la famiglia Misul fu costretta a chiudere il negozio e sfollare ad Antignano, una piccola frazione fuori dalla città di Livorno, in quanto la madre, di salute cagionevole, non poteva resistere e affrontare i continui raid aerei. Il 12 settembre ci fu un bombardamento navale e, per lo spavento, la madre di Frida ebbe un colpo al cuore (probabilmente un infarto), il giorno dopo morì.

Oltre al dolore per la scomparsa della figura materna, si manifestò il problema dell’organizzazione del funerale. Con il fatto che la morte era avvenuta in casa, occorreva un permesso dalla Questura per avere un’automobile e un po’ di benzina. Permessi che Frida andò a richiedere, recandosi dapprima dai tedeschi per la benzina (che stranamente le fu concessa senza chiederle le generalità), e in un secondo momento in Questura. Nel frattempo, però, la sua insegnante di musica l’aveva già segnalata come ebrea; appena arrivò in Questura, accompagnata dal cugino Alberto Samaia, il maresciallo Altieri della polizia italiana la vide e la dichiarò in arresto. Sentite quelle parole il cugino riuscì a scappare e avvisò la famiglia di nascondersi, poiché erano stati scoperti. Frida fu arrestata il primo aprile 1944 presso la Questura di Ardenza (LI) per mano di italiani.

Da Livorno fu condotta a Fossoli, presso il campo di smistamento, dove conobbe Errina Fornaro Di Veroli (compagna di prigionia e amica, sorella, dopo il campo di concentramento). Da Fossoli partì con il convoglio del 16 maggio 1944, diretta ad Auschwitz. All’arrivo ci fu subito la selezione e Frida venne immatricolata con il numero AX5383 (nota). Da quel momento anche per lei iniziò l’incubo del campo costretta ai lavori forzati. Dopo mesi di freddo, ore e ore a lavorare con il piccone e mangiando quel poco cibo a disposizione (se cibo si poteva chiamare), Frida si ammalò, ed espresse alla Kapò la volontà di essere visitata da un medico. Le altre compagne cercarono di deviarla da questa scelta che avrebbe sicuramente certificato la sua morte, ma ella tenace volle insistere poiché se fosse sopraggiunta la morte avrebbe rappresentato in quel momento la più alta forma di libertà. Così fu visitata da un medico che diagnosticò polmonite e nefrite e ricoverata in una baracca adibita a ospedale dove gli ammalati venivano “curati” con un po’ di aspirina. Qui Frida conobbe Giuditta Di Veroli, anch’essa malata. L’ospedale, in confronto al resto del campo garantiva un pasto migliore; chi non riusciva a guarire da solo veniva selezionato da un medico, caricato sui camion e portato nei forni crematori perché considerato inutile.

Spesso Frida cantava per allietare lo strazio e il dolore delle sue compagne di prigionia, catturando anche l’attenzione della dottoressa dell’ospedale che le chiese di cantare qualcosa in sua presenza. Frida, in onore di sua madre e di tutte le sue compagne cantò la canzone “Mamma”. In quell’istante entrò il medico della selezione che indusse Frida e Giuditta a seguirlo. Il medico consegnò le donne a un’altra Kapò in un altro blocco, lindo e pulito ma di fianco ai forni crematori: erano state adibite al recupero e al rammendo degli abiti di persone morte all’arrivo nel campo di concentramento. Il loro compito era prelevare gli abiti ammassati nelle camere a gas cercare eventuali oggetti di valore e scegliere gli abiti migliori, spediti successivamente in Germania, destinati ai grandi magazzini del Reich. Era un lavoro che Frida ricordava con tanta tristezza perché gli abiti appartenevano a donne, uomini e soprattutto bambini uccisi barbaramente, ma che dall’altro lato le permetteva di vivere perché situato nelle vicinanze dei forni crematori, non subendo così il gelido inverno che gli altri suoi compagni dovevano sopportare. Ogni tanto la domenica Frida veniva chiamata per cantare dinnanzi agli ufficiali tedeschi, e rimediava spesso qualcosina da mangiare che puntualmente divideva con il resto delle compagne.

Una mattina vennero selezionate 200 donne che da Auschwitz furono condotte a Villistat destinate al lavoro di fabbrica; tra queste c’era anche Frida. Dopo qualche giorno di lavori forzati in fabbrica e sotto continuo bombardamento furono di nuovo in cammino per recarsi in un’altra città Terestat (Praga), dove c’era un ghetto circondato da alte mura e con una grande fortezza. Le donne vennero rinchiuse in una delle baracche del ghetto mentre fuori irrompevano forti bombardamenti che durarono fino al giorno seguente. L’indomani, il 9 maggio, arrivarono dei grossi camion della Croce Rossa Internazionale, erano state liberate dai sovietici, l’incubo era finito (nota).

Dai russi, Frida fu consegnata agli americani per essere poi rimpatriata in Italia. All’arrivo a Livorno, 18 mesi dopo, venne assalita dagli abitanti perché presa per una simpatizzante della Repubblica Sociale, in quanto totalmente rasata e vestita in abiti militari; fortunatamente fu riconosciuta da un passante che spiegò la situazione e le evitò altre ingiustizie. A casa si ricongiunse ai familiari sani e salvi. Trovò lavoro come commessa e, successivamente, come reduce di guerra, trovò un pubblico impiego presso l’Ospedale della città.

La sua insegnante, Elena Mancini, fu esiliata da Livorno, il maresciallo Altieri invece non ricevette la pensione che gli spettava come componente della polizia.
Frida si impegnò fin da subito nel raccontare quello che le era capitato in Polonia; si è battuta fino alla morte per testimoniare e far conoscere a tutti la triste esperienza lasciando anche due libri scritti nell’immediato dopoguerra.

Era una donna amata e conosciuta a Livorno, in tutta la Toscana e anche a Roma, dove puntualmente si recava per far visita alle sue “sorelle”, compagne di prigionia.
Morì il 6 dicembre 1992. Livorno ha titolato una strada Frida Misul, in onore alla grande donna che era.

NOTE:

  • Picciotto, L. 1991. Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943- 1945). Milano, Mursia Editore. pag. 447 – Frida Misul
  • Il racconto di Frida è stato tratto da Memorie di deportati livornesi – Il Diario di Frida Misul. Edito da Comune di Livorno

Errina Fornaro Di Veroli

Errina Fornaro Di Veroli nacque a Roma il 14 febbraio 1916. A raccontare la sua storia è il nipote, Elio Limentani. Errina si sposò nell’ottobre 1934, e dal matrimonio nacquero quattro figli: Giovanni, Rosa, Giacomo e Stella. Prima della guerra Errina conduceva una vita tranquilla, arrangiandosi con il lavoro del marito, Agesilao Di Veroli, che faceva l’urtista
(vendeva i souvenir in giro per Roma). errina fornaro di veroli

Abitavano in via Santa Maria Del Pianto n°10 insieme a un’altra famiglia, i Di Porto.
La sera del 23 marzo 1944 Silvio Virghi, un poliziotto in pensione offeso a una gamba, molto conosciuto nel quartiere ebraico, si presentò alla porta delle famiglie Di Veroli e Di Porto accompagnato da due tedeschi, ed entrò con le chiavi di casa perché il capofamiglia Di Porto Giacomo era stato fermato per strada da Enrica Di Porto (detta “Erichetta l’incipriata” per il fatto che si truccava tantissimo, che faceva la spia nonostante fosse di religione ebraica); i tedeschi presero Giacomo e lo portarono a via Tasso dove lo picchiarono rubandogli le chiavi di casa per poter andare ad arrestare tutto il resto della famiglia. Giacomo morì alle fosse Ardeatine il giorno dopo.

Errina venne arrestata con tutta la famiglia Di Porto; al momento dell’arresto, riuscì a nascondere i figli e il marito. Ella sentì per lungo tempo il peso di questa denuncia che raccontava come umiliante, non solo per il fatto che conosceva Silvio Virghi ma anche perché questa persona fece razzia di tutte le sue cose personali. Dopo la guerra Errina lo incontrò nuovamente, ma non fu capace di dirgli niente. Da molti anni il nipote Elio sta portando avanti delle ricerche su chi fosse Silvio Virghi e su eventuali discendenti; ricerche che al momento sono state vane.

Errina Fornaro Di Veroli non fu l’unica a raccontare di essere stata denunciata da Silvio Virghi; pare che costui abbia fatto portare via più di sessanta persone a cinquemila lire ciascuna. La Comunità Ebraica di Roma ha stilato un lungo elenco di delatori in base alle interviste raccolte dai sopravvissuti e le denunce fatte tra il 1945 e il 1955. Tutti questi delatori sono rimasti impuniti, nessuno ha subito regolare processo, tranne Celeste Di Porto detta La Pantera Nera (nota), una ragazza ebrea, molto conosciuta nel ghetto, che durante l’occupazione nazista fece delazioni collaborando con i fascisti.

Errina quindi venne arrestata, portata al carcere di Regina Coeli e trasferita al campo di transito di Fossoli, dove il 16 maggio 1944 fu deportata ad Auschwitz (nota). Fece il viaggio con il suocero, un uomo molto alto, che per tutto il tempo si occupò di raccogliere l’acqua piovana con la mano per darla da bere alle persone del vagone. Il suocero per lavoro parlava tedesco e, arrivati ad Auschwitz il 22 maggio 1944, disse alla nuora “Rina, tu può darsi che a casa ci torni ma io questa sera sarò già morto”.

Errina superò la selezione (a differenza del suocero mandato subito alle camere a gas), venne immatricolata con il numero A5363 e selezionata per il blocco degli esperimenti. Qui cadde nelle mani di Schumann e Clauberg (nota), dove divenne una cavia e subì terribili interventi e test di laboratorio senza effetti anestetici; al ritorno dalla terribile esperienza scoprì di essere stata sterilizzata.
Uscita dal blocco degli esperimenti venne destinata ai lavori forzati e trasferita al campo di Ravensbruck. Errina fu liberata dall’esercito russo il 4 maggio 1945, e fece ritorno a Roma a settembre dello stesso anno.

Come altri deportati, Errina non raccontò ciò che le era capitato. L’episodio che fece scaturire in lei il desiderio di testimoniare il suo dramma ciò che accadde una mattina del 1990 in via Ugo Ojetti a Roma. Le persone si svegliarono con le serrande dei negozi imbrattate di offese contro il popolo ebraico. La paura di poter rivivere il dramma fu la forza dei sopravvissuti di far conoscere le atrocità a cui erano stati sottoposti nei campi di sterminio.

Il ritorno dalla prigionia per tutti i sopravvissuti è stato un passaggio molto difficile; ancora di più per chi, come Errina fu vittima di esperimenti ginecologici e dermatologici. Nel raccontare la propria esperienza, Errina aveva paura di trovarsi di fronte ad un muro di persone impossibilitate a capire il terribile stato in cui viveva. Due sono gli esempi nella vita di Errina che fanno capire il disagio a cui erano sottoposte le donne al rientro. Il primo risale a quattro mesi dopo il ritorno da Auschwitz. Una mattina Errina si fermò a un banco della frutta e un signore le disse “Siete tornata! Ah ma allora siete un avanzo del campo di concentramento!”. Il secondo risale a una visita dal ginecologo, a cui si sottopose poco dopo esser rientrata a casa, accompagnata dal marito. Il dottore visitandola, sentenziò “Signora purtroppo non posso dirle quello che ha perché non capisco che cosa le hanno fatto…”. Alla richiesta del marito su come fosse andata la visita, Errina preferì tacere la verità, trovando la scusa della stanchezza e della depressione.

Oggi avremmo parlato tranquillamente di problematiche femminili, disagi e quant’altro, ma all’epoca, negli anni ’40 e ’50 nell’Italia “perbene”, c’era ancora la cappa di un’educazione derivante dai Savoia, c’era una Chiesa che in maniera molto forte tarpava le ali, e che sotto il papato di Pio XII, non aveva ancora chiesto scusa degli errori e dei peccati commessi. Per far sì che ciò accadesse, si è dovuto aspettare Papa Giovanni Paolo II, che in un suo viaggio ad Auschwitz, appena arrivato, baciò la terra chiedendo perdono.

Al ritorno queste donne si chiusero in un mutismo fatto di pudore. Non era semplice (anche a distanza di anni) raccontare quello che avevano subito. Donne che vivevano come signore improvvisamente catapultate all’inferno, che si dovevano tagliare i polsi e colorare le guance per fingersi sane e superare ogni giorno la selezione, che avevano visto sbranare le proprie compagne dai cani o aspettato che morisse la persona di fianco a loro per rubargli le scarpe… Se avessero realmente raccontato tutto questo in un’epoca in cui tutta l’Italia voleva dimenticare gli orrori subiti, sarebbero state scambiate per pazze, o peggio ancora potevano sentirsi dire “chissà come ti sei salvata là dentro”… Il silenzio fu poi interrotto a partire dagli anni ’70-’80, dopo l’uscita di film come Olocausto, Kapò, Schindler’s List quando si cominciò a diffondere e a capire che cosa fosse stata davvero la Shoah. Il giorno in cui Errina morì, il 4 febbraio 1997, la mattina presto uscì di casa e buttò via tutto quello che si era portata appresso dal campo di concentramento: il porta pranzo, il fazzoletto, il vestito con cui era tornata. Di tutto il “bagaglio” si è salvato solamente un cucchiaio con il quale lei cucinava, l’aveva scambiato per una mezza razione di pane e rappresentava per lei la vita. Quel cucchiaio oggi è gelosamente conservato dal nipote.

NOTE:

  • Wikipedia voce Celeste Di Porto
  • Picciotto, L. 1991. Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943- 1945). Milano, Mursia Editore. pag. 297 – Errina Fornaro Di Veroli
  • Horst Schumann è stato un medico radiologo tedesco che partecipò, nell’ambito del programma nazista di “igene della razza”, a sperimentazioni di sterilizzazione di massa tramite irradiazioni di raggi X e di castrazione nel campo di internamento di Auschwitz, nel famigerato Block 10. Lavorava a stretto contatto con Carl Clauberg. (Wikipedia, voce Horst Schumann)
  • Carl Clauberg è stato un medico tedesco che condusse esperimenti sulla sterilizzazione usando come cavie le donne rinchiuse nei campi di sterminio di Auschwitz e Ravensbruck, quest’ultimo destinato prevalentemente all’internamento di bambini e donne; circa 300 donne morirono durante o nei giorni seguenti alle operazioni di sterilizzazione e molte altre, sopravvissute, furono afflitte da gravissime infermità fisiche e psichiche. (Wikipedia, voce Carl Clauberg)