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IL RITORNO A CASA

Si sa che la liberazione dei campi di sterminio non è stata la data in cui anche i deportati hanno potuto far ritorno nella loro patria. Sotto la tutela delle truppe alleate furono organizzati dei centri di raccolta, istituiti ospedali, dove i sopravvissuti furono curati e riabilitati alla vita. Molti di loro speravano di ritrovare i familiari dispersi e si misero a cercarli, a chiederne notizie, e a prospettarne il ritorno nella mente: attese destinate spesso a un’amara delusione; di tutto il clan familiare non era rimasto nessuno, non era sopravvissuto nessuno oltre a loro.

La delusione provocava un senso di intollerabile solitudine, ben presto seguito dalla consapevolezza di aver perduto non solo i propri familiari, ma anche la madrepatria. Sapere che non sarebbero mai più tornati dove erano nati e cresciuti, che le loro case, le Comunità, erano state spazzate via, era anch’esso un colpo violentissimo.

Il processo di reinserimento fu lento e doloroso, non ci si doveva ricostruire solo come ex deportato, come colui che tornava in un ambiente diverso, ma anche come persona che tornava in un paese provato dalla guerra, dove le famiglie erano decimate, c’era la necessità di garantirsi un livello di sopravvivenza economica e, soprattutto, al rientro non erano stati istituiti dei “comitati d’accoglienza”, l’Italia era un paese da ricostruire e tutti, anche chi era rimasto e non aveva visto l’orrore dei campi, sentivano il bisogno di ricominciare, nessuno poteva occuparsi di “ridare una vita” ai sopravvissuti perché ognuno doveva guardare a se stesso «Guardati con sospetto, trattati con insofferenza, quasi fossero illegittimi usurpatori coloro che reclamavano la casa o i beni rubati, il lavoro da cui erano stati allontanati, i diritti e la dignità che gli erano stati strappati»(Schwarz,G., 2004. Ritrovare se stessi. Gli ebrei nell’Italia postfascista. Roma-Bari, Editori Laterza, cit., pp. II, 13-4)

All’inizio chi era scampato alla deportazione chiedeva che cosa fosse successo, si pensava che fossero stati condotti ai lavori forzati, nessuno poteva immaginarsi una cosa simile; i deportati, spesso perché non lo potevano sapere, spesso perché non lo volevano dire aumentando così la tristezza e le angosce, evitavano di raccontare che fine avesse fatto un figlio, un genitore, un parente di quelli che erano rimasti in Italia. Ma ad ogni loro domanda inevitabilmente la mente tornava ai fantasmi del passato recente, ed ecco che improvvisamente era di nuovo Auschwitz.

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Silvia e Giuditta Di Veroli

Giuditta e Silvia Di Veroli, rispettivamente madre e zia di Carla Sciunnach, e zie di Grazia Di Veroli, furono deportate entrambe ad Auschwitz e ritornate a pochi giorni di distanza l’una dall’altra.
Figlie di Giacomo Di Veroli e Angela Funaro nacquero a Roma, Giuditta il 3 gennaio 1918,
e il 28 agosto 1914 Silvia (nella foto a destra Giuditta, nella foto a sinistra Silvia); avevano anche un fratello, Michele.

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Conducevano una vita tranquilla, Giuditta lavorava come commessa in via Appia, gestiva un negozio di tessuti.

Il giorno che sono state arrestate, 24 dicembre 1943, per mano di un collega del padre che aveva fatto la denuncia alle autorità, Giuditta era a lavoro ma stava male, e la portiera del negozio accanto voleva che rimanesse da lei, invece tornò a casa e trovò i tedeschi che erano venuti a prenderli.

Tutta la famiglia venne arrestata e portata al carcere di Regina Coeli per poi essere trasferita al campo di smistamento di Fossoli. Da qui partì il convoglio numero nove del 5 aprile 1944 destinato ad Auschwitz.

Silvia venne immatricolata con il numero 76788, mentre di Giuditta non si conosce l’immatricolazione (nota).
Quando liberarono i campi Silvia si trovava a Theresienstadt (liberata il 9 maggio 1945) e Giuditta a Kaunitz (liberata il primo aprile 1945). Rientrarono entrambe a Roma nell’agosto dello stesso anno. Le sorelle tornarono a distanza di un giorno l’una dall’altra, i genitori morirono all’interno del campo di sterminio, mentre il fratello, Michele, risulta liberato ma disperso. Un giorno, durante la festività di Pesach, la Pasqua Ebraica, sentirono il fischio tipico che faceva il fratello quando rientrava in casa, uscirono subito tutti e si precipitarono per le strade ma non c’era nessuno.

Al rientro a Roma Silvia e Giuditta trovarono la casa occupata da alcuni parenti lontani, che si erano impossessati di tutti i beni, dopo vari litigi, questi restituirono tutto alle sorelle. Silvia poi fortunatamente ebbe il lavoro del padre, e riuscì superare il dolore del campo.

Giuditta aveva un carattere un po’ più ostile, raccontava ma molto meno della sorella; d’estate portava la maglia a maniche lunghe per nascondere il numero, Silvia invece parlava della deportazione più volentieri, leggeva i libri, guardava film sulla Shoah e tornava ad Auschwitz (portandosi però i fiori da Roma), Giuditta non è mai voluta tornare. Nonostante gli orrori vissuti le sorelle si sono ricreate una famiglia, abitando insieme; Giuditta in seguito si sposò ed ebbe due figlie, Silvia invece prese a cuore una bambina figlia di parenti morti nei campi di concentramento che adottò come se fosse sua. Entrambe non hanno mai fatto trasparire l’orrore del campo di sterminio ai propri familiari, cercando sempre di vivere serenamente guardando avanti nonostante gli spettri del passato.

NOTE:

  • Picciotto, L. 1991. Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943- 1945). Milano, Mursia Editore. pag. 260 – Silvia DI Veroli; pag. 257 – Giuditta Di Veroli