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Frida Misul

Frida nacque a Livorno il 3 novembre 1919 da Gino Misul e Zaira Samaia.

A raccontare la sua storia sono i libri che ha lasciato come memoria indelebile quali Il diario di Frida Misul e Fra gli artigli del mostro nazista, in collaborazione con l’Associazione Nazionale ex- internati, Sez. Livorno, il figlio Roberto Rugiadi e la nipote Sarah Rugiadi

Frida Misul

Frida amava cantare, stava diventando una cantante soprano presso una professoressa di musica, Elena Mancini (la persona che poi ha contribuito a farla arrestare), faceva spesso concerti nella sua città natale e lavorava nella friggitoria di famiglia. Frida era una ragazza normalissima, con una famiglia modesta, osservante, felice, unita. Appena arrivarono voci sul fatto che i tedeschi stavano creando limitazioni agli ebrei, Frida cambiò il cognome in Masoni per continuare a esibirsi nei teatri.

Dopo il 1943 Livorno subì dei grossi bombardamenti, e la famiglia Misul fu costretta a chiudere il negozio e sfollare ad Antignano, una piccola frazione fuori dalla città di Livorno, in quanto la madre, di salute cagionevole, non poteva resistere e affrontare i continui raid aerei. Il 12 settembre ci fu un bombardamento navale e, per lo spavento, la madre di Frida ebbe un colpo al cuore (probabilmente un infarto), il giorno dopo morì.

Oltre al dolore per la scomparsa della figura materna, si manifestò il problema dell’organizzazione del funerale. Con il fatto che la morte era avvenuta in casa, occorreva un permesso dalla Questura per avere un’automobile e un po’ di benzina. Permessi che Frida andò a richiedere, recandosi dapprima dai tedeschi per la benzina (che stranamente le fu concessa senza chiederle le generalità), e in un secondo momento in Questura. Nel frattempo, però, la sua insegnante di musica l’aveva già segnalata come ebrea; appena arrivò in Questura, accompagnata dal cugino Alberto Samaia, il maresciallo Altieri della polizia italiana la vide e la dichiarò in arresto. Sentite quelle parole il cugino riuscì a scappare e avvisò la famiglia di nascondersi, poiché erano stati scoperti. Frida fu arrestata il primo aprile 1944 presso la Questura di Ardenza (LI) per mano di italiani.

Da Livorno fu condotta a Fossoli, presso il campo di smistamento, dove conobbe Errina Fornaro Di Veroli (compagna di prigionia e amica, sorella, dopo il campo di concentramento). Da Fossoli partì con il convoglio del 16 maggio 1944, diretta ad Auschwitz. All’arrivo ci fu subito la selezione e Frida venne immatricolata con il numero AX5383 (nota). Da quel momento anche per lei iniziò l’incubo del campo costretta ai lavori forzati. Dopo mesi di freddo, ore e ore a lavorare con il piccone e mangiando quel poco cibo a disposizione (se cibo si poteva chiamare), Frida si ammalò, ed espresse alla Kapò la volontà di essere visitata da un medico. Le altre compagne cercarono di deviarla da questa scelta che avrebbe sicuramente certificato la sua morte, ma ella tenace volle insistere poiché se fosse sopraggiunta la morte avrebbe rappresentato in quel momento la più alta forma di libertà. Così fu visitata da un medico che diagnosticò polmonite e nefrite e ricoverata in una baracca adibita a ospedale dove gli ammalati venivano “curati” con un po’ di aspirina. Qui Frida conobbe Giuditta Di Veroli, anch’essa malata. L’ospedale, in confronto al resto del campo garantiva un pasto migliore; chi non riusciva a guarire da solo veniva selezionato da un medico, caricato sui camion e portato nei forni crematori perché considerato inutile.

Spesso Frida cantava per allietare lo strazio e il dolore delle sue compagne di prigionia, catturando anche l’attenzione della dottoressa dell’ospedale che le chiese di cantare qualcosa in sua presenza. Frida, in onore di sua madre e di tutte le sue compagne cantò la canzone “Mamma”. In quell’istante entrò il medico della selezione che indusse Frida e Giuditta a seguirlo. Il medico consegnò le donne a un’altra Kapò in un altro blocco, lindo e pulito ma di fianco ai forni crematori: erano state adibite al recupero e al rammendo degli abiti di persone morte all’arrivo nel campo di concentramento. Il loro compito era prelevare gli abiti ammassati nelle camere a gas cercare eventuali oggetti di valore e scegliere gli abiti migliori, spediti successivamente in Germania, destinati ai grandi magazzini del Reich. Era un lavoro che Frida ricordava con tanta tristezza perché gli abiti appartenevano a donne, uomini e soprattutto bambini uccisi barbaramente, ma che dall’altro lato le permetteva di vivere perché situato nelle vicinanze dei forni crematori, non subendo così il gelido inverno che gli altri suoi compagni dovevano sopportare. Ogni tanto la domenica Frida veniva chiamata per cantare dinnanzi agli ufficiali tedeschi, e rimediava spesso qualcosina da mangiare che puntualmente divideva con il resto delle compagne.

Una mattina vennero selezionate 200 donne che da Auschwitz furono condotte a Villistat destinate al lavoro di fabbrica; tra queste c’era anche Frida. Dopo qualche giorno di lavori forzati in fabbrica e sotto continuo bombardamento furono di nuovo in cammino per recarsi in un’altra città Terestat (Praga), dove c’era un ghetto circondato da alte mura e con una grande fortezza. Le donne vennero rinchiuse in una delle baracche del ghetto mentre fuori irrompevano forti bombardamenti che durarono fino al giorno seguente. L’indomani, il 9 maggio, arrivarono dei grossi camion della Croce Rossa Internazionale, erano state liberate dai sovietici, l’incubo era finito (nota).

Dai russi, Frida fu consegnata agli americani per essere poi rimpatriata in Italia. All’arrivo a Livorno, 18 mesi dopo, venne assalita dagli abitanti perché presa per una simpatizzante della Repubblica Sociale, in quanto totalmente rasata e vestita in abiti militari; fortunatamente fu riconosciuta da un passante che spiegò la situazione e le evitò altre ingiustizie. A casa si ricongiunse ai familiari sani e salvi. Trovò lavoro come commessa e, successivamente, come reduce di guerra, trovò un pubblico impiego presso l’Ospedale della città.

La sua insegnante, Elena Mancini, fu esiliata da Livorno, il maresciallo Altieri invece non ricevette la pensione che gli spettava come componente della polizia.
Frida si impegnò fin da subito nel raccontare quello che le era capitato in Polonia; si è battuta fino alla morte per testimoniare e far conoscere a tutti la triste esperienza lasciando anche due libri scritti nell’immediato dopoguerra.

Era una donna amata e conosciuta a Livorno, in tutta la Toscana e anche a Roma, dove puntualmente si recava per far visita alle sue “sorelle”, compagne di prigionia.
Morì il 6 dicembre 1992. Livorno ha titolato una strada Frida Misul, in onore alla grande donna che era.

NOTE:

  • Picciotto, L. 1991. Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943- 1945). Milano, Mursia Editore. pag. 447 – Frida Misul
  • Il racconto di Frida è stato tratto da Memorie di deportati livornesi – Il Diario di Frida Misul. Edito da Comune di Livorno