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IL RACCONTO DEI DEPORTATI

Nel periodo immediatamente dopo la Shoah, i sopravvissuti non emergono nella Società a parlare delle loro esperienze, ma sono riuniti semplicemente in associazioni, cioè in luoghi di riunione e di aiuto reciproco, e non hanno ambizioni di rivolgersi ad altri che non abbiano vissuto la stessa esperienza.

Per anni quindi non si è parlato molto di deportazione, tutti sapevano solo che queste persone erano dei sopravvissuti.
I perseguitati per molto tempo furono abbandonati a una gestione solitaria del ricordo dell’esperienza appena vissuta. L’Italia aveva bisogno di forza, pensieri positivi e voglia di andare avanti. Nessuno voleva intristirsi ulteriormente con i racconti dei campi di concentramento. Cosa ancor peggiore chi parlava non veniva creduto. La verità è che nell’immediato dopo guerra (ma anche negli anni successivi, fino ai primi documentari reali), nessuno conosceva realmente di che cosa erano stati capaci i nazisti.

Reazioni simili fecero tacere i sopravvissuti per molti anni, alcuni addirittura per sempre visto che lo stesso Schulim ha conservato un grande segreto fino alla morte.

Solamente all’inizio degli anni Settanta sembra emergere un interesse per la Shoah, vengono pubblicati i primi scritti sulla deportazione e sui campi di sterminio e le testimonianze audiovisive cominciano ad essere raccolte in modo sistematico.

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Difficilmente un sopravvissuto ha raccontato l’orrore, chi ha parlato fin da subito (Frida, Settimia) ha dovuto mantenere quel decoro, raccontava gli orrori subiti senza oltrepassare il limite dell’ascoltabile. Chi invece non ha avuto il coraggio di parlare, ha inevitabilmente trasmetto la paura e le violenze subite ai propri cari, ansie di fantasmi di avvenimenti e persone che i figli e nipoti non hanno vissuto e conosciuto.

Tutti i racconti, detti, omessi, vissuti, sentiti, alla fine però hanno un comun denominatore: in ogni racconto il sopravvissuto troverà sempre il modo per far giungere il messaggio della solidarietà, della necessità di stare insieme, della libertà.

IL RITORNO A CASA

Si sa che la liberazione dei campi di sterminio non è stata la data in cui anche i deportati hanno potuto far ritorno nella loro patria. Sotto la tutela delle truppe alleate furono organizzati dei centri di raccolta, istituiti ospedali, dove i sopravvissuti furono curati e riabilitati alla vita. Molti di loro speravano di ritrovare i familiari dispersi e si misero a cercarli, a chiederne notizie, e a prospettarne il ritorno nella mente: attese destinate spesso a un’amara delusione; di tutto il clan familiare non era rimasto nessuno, non era sopravvissuto nessuno oltre a loro.

La delusione provocava un senso di intollerabile solitudine, ben presto seguito dalla consapevolezza di aver perduto non solo i propri familiari, ma anche la madrepatria. Sapere che non sarebbero mai più tornati dove erano nati e cresciuti, che le loro case, le Comunità, erano state spazzate via, era anch’esso un colpo violentissimo.

Il processo di reinserimento fu lento e doloroso, non ci si doveva ricostruire solo come ex deportato, come colui che tornava in un ambiente diverso, ma anche come persona che tornava in un paese provato dalla guerra, dove le famiglie erano decimate, c’era la necessità di garantirsi un livello di sopravvivenza economica e, soprattutto, al rientro non erano stati istituiti dei “comitati d’accoglienza”, l’Italia era un paese da ricostruire e tutti, anche chi era rimasto e non aveva visto l’orrore dei campi, sentivano il bisogno di ricominciare, nessuno poteva occuparsi di “ridare una vita” ai sopravvissuti perché ognuno doveva guardare a se stesso «Guardati con sospetto, trattati con insofferenza, quasi fossero illegittimi usurpatori coloro che reclamavano la casa o i beni rubati, il lavoro da cui erano stati allontanati, i diritti e la dignità che gli erano stati strappati»(Schwarz,G., 2004. Ritrovare se stessi. Gli ebrei nell’Italia postfascista. Roma-Bari, Editori Laterza, cit., pp. II, 13-4)

All’inizio chi era scampato alla deportazione chiedeva che cosa fosse successo, si pensava che fossero stati condotti ai lavori forzati, nessuno poteva immaginarsi una cosa simile; i deportati, spesso perché non lo potevano sapere, spesso perché non lo volevano dire aumentando così la tristezza e le angosce, evitavano di raccontare che fine avesse fatto un figlio, un genitore, un parente di quelli che erano rimasti in Italia. Ma ad ogni loro domanda inevitabilmente la mente tornava ai fantasmi del passato recente, ed ecco che improvvisamente era di nuovo Auschwitz.

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