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Settimia Spizzichino

La vita di Settimia Spizzichino viene raccontata dalla nipote, Carla Di Veroli e ripercorsa grazia a un film Nata due volte. Settimia nacque a Roma il 15 aprile 1921. Viveva in via della Reginella 2, in pieno quartiere ebraico insieme alla sua famiglia, una famiglia molto protettiva, con i vecchi valori di una volta. Il padre era commerciante di libri e la madre maestra alla scuola ebraica. Il fratello, Pacifico, si accertava che le sue sorelle si comportassero in modo adeguato ed educato.settimia spizzichino

Settimia, a differenza delle sorelle, è stata sempre una ragazza ribelle, racconta di aver fatto tante cose che i genitori e il fratello non le avrebbero permesso e ha continuato a farlo anche dopo le leggi razziali del 1938. Amava passeggiare e andare a prendere il caffè in Via Veneto, quindi fuori a quello che era il perimetro dell’ex ghetto di Roma. Amava andare al cinema e prendersi cura di sé. Racconta nel film di quando ad Auschwitz venne tosata e di questa ciocca di capelli che le cadde sulla schiena, la sensazione di quel brivido che sentì mentre i capelli le scivolavano addosso, è stata sempre presente dentro di lei anche a distanza di anni. Racconta di questa tinta per capelli fatta “per fanaticheria” cioè proprio per il piacere di preoccuparsi della propria estetica con un certo compiacimento. Settimia amava molto vestire bene, lo ha fatto prima del campo e ha continuato a farlo anche dopo, ma ha sempre rifiutato di indossare il colore giallo (nota)… Facile immaginare il perché.

La mattina del 16 ottobre 1943 verso le sei si cominciarono a sentire i rumori pesanti e voci che gridavano in tedesco di uscire di casa. Settimia scese di casa con i fucili puntati addosso in fila indiana insieme alla famiglia, con i tedeschi che urlavano “è per il vostro bene!”. Usciti dal ghetto li fecero salire sui camion diretti alla stazione dove ad aspettarli trovarono i treni diretti ad Auschwitz (nota). Il viaggio durò circa tre giorni in un vagone dove non c’era neanche l’aria per respirare. Le persone erano costrette a urinare e defecare nel posto in cui si trovavano; quando il treno si fermò molti erano già morti per assideramento.

Sulla banchina divisero gli uomini dalle donne e Mengele (nota) si occupò di effettuare la selezione: Settimia, la sorella più giovane e altre ragazze del ghetto furono portate al campo di lavoro, la madre e la sorella più grande andarono subito alle camere a gas. Nessuno sapeva quello che stava accadendo, tutti pensavano che si sarebbero rivisti la sera. Dopo la tosatura, il numero (66210), la doccia, il vestiario malmesso e sporco e tanta fame, a notte fonda Settimia fu portata in grandi baracche piene di altre persone. Qualche giorno dopo venne internata nel blocco degli esperimenti, il famigerato blocco 10. Le vennero somministrati il tifo e la scabbia. “La scabbia – dice nel film – è stato l’esperimento più atroce, perché mi si erano formate le piaghe da tutte le parti, perfino dentro le orecchie… E io urlavo, urlavo tanto, perché davanti allo specchio non mi riconoscevo”. Nel blocco degli esperimenti Settimia vide passare spesso coppie di gemelli ricordandosi in modo particolare di due gemelle bellissime con gli occhi scuri e i capelli biondi, dopo circa una settimana le vide trasformate: avevano gli occhi azzurri e la pelle molto gonfia (nota).

Durante tutto il periodo di prigionia Settimia aveva un unico obiettivo: tornare per raccontare, ed è questo che le dava la forza di affrontare ogni giorno.

Il 17 gennaio 1945 iniziò l’evacuazione da Auschwitz di 67.000 reclusi, compresa Settimia, che fu costretta a fare la marcia della morte sotto la neve, dopo qualche giorno arrivò a Bergen-Belsen.

Il campo di Bergen-Belsen è stato liberato dagli alleati il 15 aprile 1945, Settimia venne liberata il giorno del suo compleanno, e questo rappresentò per lei una rinascita, come se fosse nata due volte. Il rientro a casa fu molto difficile; riuscì ad arrivare a Roma solamente nel settembre del 1945, un viaggio durato mesi fatto di mezzi di fortuna ma caratterizzato anche da episodi di solidarietà da parte dei soldati alleati e dalle persone incontrate; a Bologna il treno si fermò e un signore offrì a lei e alle sue amiche un gelato (per l’epoca molto costoso).

Al ritorno trovò il padre e due sorelle, e riprese la vita di tutti i giorni andando a fare la commessa in un negozio. Voleva tenere occupate le giornate proprio per non pensare ai fantasmi del passato recente. La vita di una donna al rientro non era facile tant’è che un giorno, ricorda Settimia, “fui fermata in modo brusco da un uomo che mi disse ‘Tu perché ti sei salvata? Ti sei venduta?’”, raccontava sempre questo episodio con tanto dolore, a ulteriore dimostrazione che nell’immediato dopo guerra nessuno poteva capire.

Con i suoi gesti e con i suoi sguardi, Settimia raccontava, anche se non in maniera dettagliata, l’orrore che i suoi occhi avevano visto. Per non turbare l’equilibrio familiare, preferì non raccontare direttamente la sua esperienza. Alle loro richieste rispondeva “è uscito un libro dove c’è una mia intervista, vattelo a leggere”.

Al suo ritorno, Settimia si impegnò nel sindacato per la tutela dei diritti dei lavoratori, scendendo in piazza durante le manifestazioni e rifiutando le candidature alla Camera e al Senato; un rifiuto motivato dal fatto che lei doveva e voleva stare in mezzo alle persone. Si attivò nel testimoniare l’olocausto agli studenti e nei viaggi ad Auschwitz. Le ultime interviste furono rilasciate poche settimane prima della sua scomparsa, avvenuta il 3 luglio del 2000.

Dal libro Gli anni rubati di Settimia Spizzichino:
Ci sono cose che tutti vogliono dimenticare. Ma io no. Io della mia vita voglio ricordare tutto, anche quella terribile esperienza che si chiama Auschwitz: due anni in Polonia (e in Germania), due inverni, e in Polonia l’inverno è inverno sul serio, è un assassino.., anche se non è stato il freddo la cosa peggiore. Tutto questo è parte della mia vita e soprattutto è parte della vita di tanti altri che dai Lager non sono usciti. E a queste persone io devo il ricordo: devo ricordare per raccontare anche la loro storia. L’ho giurato quando sono tornata a casa; e questo mio proposito si è rafforzato in tutti questi anni, specialmente ogni volta che qualcuno osa dire che tutto ciò non è mai accaduto, che non è vero. Ho una buona memoria. E poi quei due anni li ho raccontati tante volte: ai giornalisti, alla televisione, ai politici, ai ragazzi delle scuole durante i molti viaggi che ho fatto per accompagnarli ad Auschwitz… anche se non sempre sono entrata nei particolari. Ad Auschwitz si desidera tornare – anche molti di quei ragazzi lo desiderano – e a qualcuno sembra strano. Ma perché? È come andare al cimitero a portare un fiore e una preghiera. – Raccontavo sul pullman che ci portava in Polonia. È sul pullman che si parla, quando si arriva ad Auschwitz parla la guida e parlano le cose. Le poche che sono rimaste. C’è un museo, ma i forni crematori, le camere a gas, le costruzioni in muratura sono state distrutte. La prima volta che ci sono tornata ho provato più delusione che emozione, non riconoscevo il posto. In questi cinquant’anni trascorsi da allora sono stata spesso sollecitata a scrivere questo libro. E io lo volevo fare; ma c’erano ancora i parenti di quelle che sono rimaste là, i genitori, i fratelli, i mariti, i figli delle mie compagne del gruppo di lavoro. Quarantotto eravamo, e sono uscita viva soltanto io. Molte di loro le ho viste morire, di altre so che fine hanno fatto. Come raccontare a una madre, a un padre, che la loro figlia di vent’anni è morta di cancrena per le botte ricevute da una Kapò? Come descrivere la pazzia di alcune di quelle ragazze a coloro che le amavano? Adesso molti dei genitori, dei fratelli, dei mariti, non ci sono più; le ferite non sono più così fresche. A quelli che restano spero di non fare troppo male. Ma adesso devo mantenere la promessa che ho fatto a quarantasette ragazze che sono morte ad Auschwitz, le mie compagne di lavoro. E a tutti gli altri milioni di morti dei Lager nazisti. Di quel gruppo faceva parte anche mia sorella Giuditta. Giuditta, così bella, così fragile, deportata assieme a me il 16 ottobre 1943. Giuditta, causa involontaria della cattura mia e della mia famiglia“. (Spizzichino S., Di Nepi Olper I., Gli anni rubati: le memorie di Settimia Spizzichino, reduce dai lager di Auschwitz e Bergen-Belsen, Comune di Cava De’ Tirreni, 1996).

All’alba del 16 ottobre 1943, le S.S. naziste rastrellarono e deportarono 1024 ebrei (tra cui oltre 200 bambini). Tornarono solo quindici uomini e una donna: Settimia Spizzichino.

NOTE:

  • Nata due Volte un film realizzato da un progetto dell’A.N.E.D. Sez. Roma e della Fondazione Memoria della Deportazione.
    Produttori:Provincia di Roma – Ass.to alle Politiche della ScuolaProvincia di Salerno – Vice Presidenza Giunta Comune di Roma – Ass.to alla Politiche Educative e Scolastiche Istituto Luce S.p.A. U.C.E.I. Fondo 249/2000 Unversità Roma Tre – Dip.to Comunicazione Letteraria e Spettacolo
  • La Stella di David, la stella a sei punte che rappresenta la civiltà e la religiosità ebraica, venne utilizzata dai nazisti durante la Shoah come metodo di identificazione degli ebrei, di colore giallo, e chiamata Stella Ebrea. L’obbligo di portare la Stella di David con la parola jude (giudeo in tedesco) scritta sopra, venne esteso a tutti gli ebrei al di sopra dei sei anni nelle zone occupate dalla Germania dal 1941. Gli ebrei internati nei campi di concentramento vennero in seguito costretti a portare simili distintivi. I nazionalsocialisti obbligavano gli ebrei a indossare vestiti con cucita la stella di David per farsi riconoscere. (Wikipedia, voce Stella di David)
  • Picciotto, L. 1991. Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943- 1945). Milano, Mursia Editore. pag. 605 – Settimia Spizzichino
  • Josef Mengele è stato un medico e militare tedesco. Laureato in antropologia all’Università di Ludwig Miximilian di Monaco di Baviera e in medicina alla Johann Wolfgang Goethe-Universitat di Francoforte, è noto per i crudeli esperimenti medici che svolse nel campo di concentramento di Auschwitz, usando i deportati, compresi i bambini, come cavie umane. Per la sua attività svolta nel campo di concentramento era stato nominato angelo della morte. […] Sopravvisse alla caduta del regime nazista e, sfuggito al processo di Norimberga, dopo un periodo di vita in incognito in Germania, si rifugiò in Sud America, spostandosi in diversi paesi. Nonostante fosse ricercato come criminale di guerra nazista, sfuggì alla cattura per il resto della sua vita. Morto per cause naturali. (Wikipedia, voce Josef Mengele)
  • Gli esperimenti su gemelli monozigoti erano condotti da Mengele ad Auschwitz e Birkenau. Le ricerche partivano da misurazioni meticolose e assolutamente precise di comparazione fra gemelli. I soggetti venivano addormentati e poi uccisi, i corpi sezionati e studiati dall’interno. (Wikipedia, voce Esperimenti nazisti su esseri umani)

Errina Fornaro Di Veroli

Errina Fornaro Di Veroli nacque a Roma il 14 febbraio 1916. A raccontare la sua storia è il nipote, Elio Limentani. Errina si sposò nell’ottobre 1934, e dal matrimonio nacquero quattro figli: Giovanni, Rosa, Giacomo e Stella. Prima della guerra Errina conduceva una vita tranquilla, arrangiandosi con il lavoro del marito, Agesilao Di Veroli, che faceva l’urtista
(vendeva i souvenir in giro per Roma). errina fornaro di veroli

Abitavano in via Santa Maria Del Pianto n°10 insieme a un’altra famiglia, i Di Porto.
La sera del 23 marzo 1944 Silvio Virghi, un poliziotto in pensione offeso a una gamba, molto conosciuto nel quartiere ebraico, si presentò alla porta delle famiglie Di Veroli e Di Porto accompagnato da due tedeschi, ed entrò con le chiavi di casa perché il capofamiglia Di Porto Giacomo era stato fermato per strada da Enrica Di Porto (detta “Erichetta l’incipriata” per il fatto che si truccava tantissimo, che faceva la spia nonostante fosse di religione ebraica); i tedeschi presero Giacomo e lo portarono a via Tasso dove lo picchiarono rubandogli le chiavi di casa per poter andare ad arrestare tutto il resto della famiglia. Giacomo morì alle fosse Ardeatine il giorno dopo.

Errina venne arrestata con tutta la famiglia Di Porto; al momento dell’arresto, riuscì a nascondere i figli e il marito. Ella sentì per lungo tempo il peso di questa denuncia che raccontava come umiliante, non solo per il fatto che conosceva Silvio Virghi ma anche perché questa persona fece razzia di tutte le sue cose personali. Dopo la guerra Errina lo incontrò nuovamente, ma non fu capace di dirgli niente. Da molti anni il nipote Elio sta portando avanti delle ricerche su chi fosse Silvio Virghi e su eventuali discendenti; ricerche che al momento sono state vane.

Errina Fornaro Di Veroli non fu l’unica a raccontare di essere stata denunciata da Silvio Virghi; pare che costui abbia fatto portare via più di sessanta persone a cinquemila lire ciascuna. La Comunità Ebraica di Roma ha stilato un lungo elenco di delatori in base alle interviste raccolte dai sopravvissuti e le denunce fatte tra il 1945 e il 1955. Tutti questi delatori sono rimasti impuniti, nessuno ha subito regolare processo, tranne Celeste Di Porto detta La Pantera Nera (nota), una ragazza ebrea, molto conosciuta nel ghetto, che durante l’occupazione nazista fece delazioni collaborando con i fascisti.

Errina quindi venne arrestata, portata al carcere di Regina Coeli e trasferita al campo di transito di Fossoli, dove il 16 maggio 1944 fu deportata ad Auschwitz (nota). Fece il viaggio con il suocero, un uomo molto alto, che per tutto il tempo si occupò di raccogliere l’acqua piovana con la mano per darla da bere alle persone del vagone. Il suocero per lavoro parlava tedesco e, arrivati ad Auschwitz il 22 maggio 1944, disse alla nuora “Rina, tu può darsi che a casa ci torni ma io questa sera sarò già morto”.

Errina superò la selezione (a differenza del suocero mandato subito alle camere a gas), venne immatricolata con il numero A5363 e selezionata per il blocco degli esperimenti. Qui cadde nelle mani di Schumann e Clauberg (nota), dove divenne una cavia e subì terribili interventi e test di laboratorio senza effetti anestetici; al ritorno dalla terribile esperienza scoprì di essere stata sterilizzata.
Uscita dal blocco degli esperimenti venne destinata ai lavori forzati e trasferita al campo di Ravensbruck. Errina fu liberata dall’esercito russo il 4 maggio 1945, e fece ritorno a Roma a settembre dello stesso anno.

Come altri deportati, Errina non raccontò ciò che le era capitato. L’episodio che fece scaturire in lei il desiderio di testimoniare il suo dramma ciò che accadde una mattina del 1990 in via Ugo Ojetti a Roma. Le persone si svegliarono con le serrande dei negozi imbrattate di offese contro il popolo ebraico. La paura di poter rivivere il dramma fu la forza dei sopravvissuti di far conoscere le atrocità a cui erano stati sottoposti nei campi di sterminio.

Il ritorno dalla prigionia per tutti i sopravvissuti è stato un passaggio molto difficile; ancora di più per chi, come Errina fu vittima di esperimenti ginecologici e dermatologici. Nel raccontare la propria esperienza, Errina aveva paura di trovarsi di fronte ad un muro di persone impossibilitate a capire il terribile stato in cui viveva. Due sono gli esempi nella vita di Errina che fanno capire il disagio a cui erano sottoposte le donne al rientro. Il primo risale a quattro mesi dopo il ritorno da Auschwitz. Una mattina Errina si fermò a un banco della frutta e un signore le disse “Siete tornata! Ah ma allora siete un avanzo del campo di concentramento!”. Il secondo risale a una visita dal ginecologo, a cui si sottopose poco dopo esser rientrata a casa, accompagnata dal marito. Il dottore visitandola, sentenziò “Signora purtroppo non posso dirle quello che ha perché non capisco che cosa le hanno fatto…”. Alla richiesta del marito su come fosse andata la visita, Errina preferì tacere la verità, trovando la scusa della stanchezza e della depressione.

Oggi avremmo parlato tranquillamente di problematiche femminili, disagi e quant’altro, ma all’epoca, negli anni ’40 e ’50 nell’Italia “perbene”, c’era ancora la cappa di un’educazione derivante dai Savoia, c’era una Chiesa che in maniera molto forte tarpava le ali, e che sotto il papato di Pio XII, non aveva ancora chiesto scusa degli errori e dei peccati commessi. Per far sì che ciò accadesse, si è dovuto aspettare Papa Giovanni Paolo II, che in un suo viaggio ad Auschwitz, appena arrivato, baciò la terra chiedendo perdono.

Al ritorno queste donne si chiusero in un mutismo fatto di pudore. Non era semplice (anche a distanza di anni) raccontare quello che avevano subito. Donne che vivevano come signore improvvisamente catapultate all’inferno, che si dovevano tagliare i polsi e colorare le guance per fingersi sane e superare ogni giorno la selezione, che avevano visto sbranare le proprie compagne dai cani o aspettato che morisse la persona di fianco a loro per rubargli le scarpe… Se avessero realmente raccontato tutto questo in un’epoca in cui tutta l’Italia voleva dimenticare gli orrori subiti, sarebbero state scambiate per pazze, o peggio ancora potevano sentirsi dire “chissà come ti sei salvata là dentro”… Il silenzio fu poi interrotto a partire dagli anni ’70-’80, dopo l’uscita di film come Olocausto, Kapò, Schindler’s List quando si cominciò a diffondere e a capire che cosa fosse stata davvero la Shoah. Il giorno in cui Errina morì, il 4 febbraio 1997, la mattina presto uscì di casa e buttò via tutto quello che si era portata appresso dal campo di concentramento: il porta pranzo, il fazzoletto, il vestito con cui era tornata. Di tutto il “bagaglio” si è salvato solamente un cucchiaio con il quale lei cucinava, l’aveva scambiato per una mezza razione di pane e rappresentava per lei la vita. Quel cucchiaio oggi è gelosamente conservato dal nipote.

NOTE:

  • Wikipedia voce Celeste Di Porto
  • Picciotto, L. 1991. Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943- 1945). Milano, Mursia Editore. pag. 297 – Errina Fornaro Di Veroli
  • Horst Schumann è stato un medico radiologo tedesco che partecipò, nell’ambito del programma nazista di “igene della razza”, a sperimentazioni di sterilizzazione di massa tramite irradiazioni di raggi X e di castrazione nel campo di internamento di Auschwitz, nel famigerato Block 10. Lavorava a stretto contatto con Carl Clauberg. (Wikipedia, voce Horst Schumann)
  • Carl Clauberg è stato un medico tedesco che condusse esperimenti sulla sterilizzazione usando come cavie le donne rinchiuse nei campi di sterminio di Auschwitz e Ravensbruck, quest’ultimo destinato prevalentemente all’internamento di bambini e donne; circa 300 donne morirono durante o nei giorni seguenti alle operazioni di sterilizzazione e molte altre, sopravvissute, furono afflitte da gravissime infermità fisiche e psichiche. (Wikipedia, voce Carl Clauberg)